
La finale della Coppa Itale del 1922 e la carriera di Felice Levratto vengono raccontate con stile e ricercatezza in questo bel libro di Gerson Maceri. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Mi ha molto colpito lo stile di narrazione da te esibito, quando rispondesse ad una necessità di adattarsi al contesto e all’epoca narrativo: è corretto come riferimento?
Correttissimo. Si tratta di una scelta consapevolmente controtendenza e – ahimè – anticommerciale. Ma tant’è. Leggilo, se vuoi, anche come un rigurgito contro la sciatteria lessicale e contenutistica di alcuni “titoloni” sportivi di editori mainstream. Insomma: preferisco “vendermi” a soli venticinque lettori, quelli di manzoniana memoria, offrendo un prodotto che reputo intellettualmente onesto, che a folle oceaniche, mancando di rispetto in primis a me stesso e alla mia penna.
Quanto è durato il certosino quanto ammirevole lavoro di ricerca?
La gestazione del libro è stata decennale. I problemi tecnici, i vuoti ispirazionali e motivazionali (scrivere per una nicchia di un genere a sua volta di nicchia…), una chirurgica ricerca documentaria (l’avere “ereditato” l’archivio personale di Levratto dal marito della figlia Maria Angela mi ha facilitato…) unita a una morbosa cura stilistica, lo studio delle modalità di pubblicazione… Il progetto originario prevedeva una biografia completa, ma la scadenza del centenario della Coppa Italia vadese mi ha imposto una ricalibratura.
Come collocheresti Levratto nella storia del calcio italiano? È forse un po’ trascurato quando si parla dei grandi attaccanti?
Mi piace immaginare Levratto come un mix tra Nedved e Mbappé, oppure come un Vieri decentrato con
qualche sfumatura balotelliana.
Sulla sua considerazione a livello nazionale sono d’accordo con te. Trascurato sia che si guardi alla mera statistica (ventotto presenze in Azzurro e undici goal, trentesimo cannoniere all-time con una media di uno ogni 232 minuti: superiore a quelle di Cassano, di Immobile, dei Mazzola, di Vialli, Rivera, Insigne, Totti e Mancini…), sia che si pesi il palmarès (bronzo olimpico ad Amsterdam e la Coppa Internazionale 1927/30).
Certo, a livello di club fu poco fortunato: vinse la sola Coppa Italia 1922 col Vado, non riuscì ad agganciare il “treno” della Juventus, con cui disputò solo la tournée tedesca di Pasqua del 1924, e sfiorò soltanto la “stella” col Genoa e la gloria con l’Inter. E nemmeno come allenatore riuscì a sfondare, seppure fu collaboratore di Bernardini nella Viola scudettata del 1956.
E, infine, per quanto siano state imaginifiche le sue prodezze, l’assenza di highlights pesa sulla memoria collettiva.
È altresì corretto definirlo uno dei primi idoli del nostro calcio visti i sonetti e le canzoni che gli sono dedicate?
Levratto possedeva le virtù più agognate da parte di ogni pedatore (e più apprezzate dai supporter), ma incarnava anche i vizi e i malvezzi più comuni del popolino. Esemplificherei il tutto in due episodi.
Alle Olimpiadi del 1924, quando già s’era guadagnato l’appellativo mitico di “sfondareti”, abbatté il guardiano lussemburghese – «che fece un balzo in alto e poi cadde in terra nel classico atteggiamento del pugilista messo fuori combattimento», annotò Pozzo nel suo “Campioni del mondo – Quarant’anni di storia del calcio italiano” – con una «legnata come se volesse spaccare tutto». Levratto temette realmente di averlo ammazzato, prima che quegli, faticosamente, si riavesse.
Cosicché cinque minuti, quando l’azione si ripeté tale e quale, il portiere «con un balzo felino, volò a terra, fuori dalla porta, coprendosi il viso colle mani». E l’ala azzurra non poté che «rotolare a terra per il gran ridere, e a porta vuota, non segnò».
Al termine di un Torino – Genoa 5-1 del campionato 1927/28, invece, sempre Pozzo (questa volta su La Stampa) descrisse così – tra l’attonito e il divertito – l’insolito post-gara: «Levratto risponde agli scherni del pubblico con gesti e parole che sono un aperto riferimento alla più antica professione che esista al mondo. L’arbitro lo espelle. Il genoano si avvia come per uscire. Poi di colpo, come preso da pazzia balza verso l’alta rete che separa il campo dal pubblico, la valica con un salto degno di un campione di atletica leggera, piomba fra gli spettatori come un toro inferocito e mena pugni e calci all’impazzata».
Facile, dunque, immedesimarvisi. O no? In merito alla celebre “canzoncina paracula” del Quartetto Cetra intitolata “Che centrattacco” (1960), infine, Levratto fu “prescelto”, evidentemente, non solo per mero compromesso tra tema e metrica e identità di suono. Il “mito dello sfondareti” resisteva. E poi guarda il caso: del gruppo vocale facevano parte, oltre a Lucia Mannucci e Giovanni “Tata” Giacobetti, Virgilio Savona e Felice Chiusano. E qual è il nome completo di Levratto? Virgilio Felice! E di quale provincia era originario? Savona! Solo una… “Felice” coincidenza?
La cavalcata di quel Vado è poi da leggere come una magnifica impresa che solo il calcio può regalare o è frutto di una grossa casualità?
Proviamo a razionalizzare il razionalizzabile. Innanzitutto, il Vado disputò in casa cinque dei sei turni totali di Coppa (semifinale e finale comprese): un vantaggio consistente in un tempo in cui il “fattore campo” era ancora, realmente, determinante. Non fu casualità: l’articolo 8 della manifestazione, infatti, prevedeva degli oneri importanti per la squadra ospitante (preparazione della pelouse, reclame, servizio d’ordine, indennizzo alla squadra ospite – consistente nel pagamento del viaggio di seconda classe e nella diaria di lire 30 per ognuna delle dodici persone componenti il plotone – e altre varie ed eventuali spese di organizzazione), ed evidentemente i rossoblù erano tra i pochi a poterseli accollare riuscendo a far quadrare, in qualche modo, i bilanci.
E ancora: il primo e gli ultimi due atti del torneo si protrassero ai supplementari. Difficile sostenerli in piena efficienza in seguito a trasferte logisticamente non certo agevoli e, magari, affrontate non a pieno organico (l’Udinese, ad esempio, arrivò in Riviera senza quattro titolari, tra i quali il centravanti Moretti, autore di sette reti in campionato e quattro in Coppa).
Al tempo stesso ti chiedo quanto l’Udinese abbia sottovalutato l’impegno finale?
La tesi della sottovalutazione – conscia e/o inconscia – mi è stata suggerita da un articolo de “Il Giornale di Udine” dell’11 luglio 1922, nel quale si pubblicò il seguente “epitaffio sportivo”: «ai concittadini non rimane, oramai, che un facile incontro col Vado per conquistarsi la meritatissima vittoria». E io l’ho romanzescamente cavalcata, dipingendo lo spensierato cameratismo dei giovani gitanti bianconeri, poco propensi a preoccuparsi di quella “squadraccia” di categoria inferiore.
Dalla finale sono passati 100 anni, socialmente e calcisticamente ne sembrano passati il triplo: credi che almeno nel secondo aspetto riusciremo a stare ancorati ai veri valori trasmessi da un calcio vero e puro?
Premesso che “La finale infinita” non è un agiografia, di “calcio vero e puro” non ne vedo più da un pezzo. Perché chi l’ha conosciuto e praticato, appassionatamente, come “gioco” cencioso e polveroso, fatica ad ammettere che quel “gioco” non esiste più; e se non lo ammette, mente sapendo di mentire. Non vi sono più “spazi” vergini da esplorare, spazi in cui il talento naturale, l’inventiva, l’astuzia, la libertà, la fantasia, la creatività e l’immaginazione possano ancora ritagliarsi un “oh” di estasi e meraviglia. La narrazione del sogno d’ogni bambino che s’è fatto grande con la palla tra i piedi, ormai, s’è irrimediabilmente interrotta. La contemporanea “selfie generation”, infatti, vivacchia in una confort zone massificante, che oltre all’ubiquità social, impone una pesistica da body builder, la bestemmia come intercalare, vistosi tribali sugli arti, le calzature del brand dominante e i più cool fra gli energy drink. Questo si può ancora definire un gioco? Men che meno “il gioco più bello del mondo”? Si può catalogare tra i divertimenti, annoverare tra gli sfoghi sani? Io vi scorgo, a tutti i livelli e a qualsiasi età, un non so che di impiegatizio, di operaio, di fordiano. Ed è per questo che il calcio mi sta venendo a noia.
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