
La vita di Herbert Kilpin viene rivisitata in un bel romanzo che ne evidenzia le peculiarità caratteriali ed il grande amore per il calcio, fornendo inoltre un fedele spaccato sociale del periodo. Ne abbiamo parlato con gli autori Paul Davidson e Cecilia Gragnani.
Cosa vi ha più affascinato della figura di Herbert Kilpin?
Quello che ci interessava capire e immaginare era come un uomo dalle origini così umili, figlio di un macellaio di Nottingham, fosse finito in Italia in un momento di agitazione sociale e fosse riuscito a fondare uno dei club più importanti nella storia del calcio. Com’è possibile che un evento, apparentemente così inverosimile, e una storia così potente, siano caduti nell’oblio sia in Italia che nel Regno Unito?
Quanto è durato il lavoro di ricerca e come lo avete organizzato?
E’ in realtà un processo continuo, anche ora che il romanzo è stato pubblicato. Ci sono piccoli gruppi di appassionati e studiosi sempre disponibili a condividere le loro ricerche.
Persone che sono andate a scavare e scoprire quanto più possibile sulla storia della loro squadra, come Luigi La Rocca a cui dobbiamo la riscoperta di Kilpin.
Abbiamo avuto anche la fortuna di conoscere Helen Stirland, l’unica lontana parente di Herbert ancora in vita. Suo marito Roger, che ha creato un albero genealogico e ricostruito la storia della famiglia, ha condiviso con noi molti racconti sulla vita in famiglia a Nottingham.
C’è da dire poi che in generale si sa molto poco di Kilpin. Abbiamo utilizzato le informazioni di pubblico dominio per seguire la sequenza temporale degli eventi, attingendo anche da aneddoti sulla sua passione per il gioco, le sue abitudini e il debole per fumo e alcool.
Volevamo creare un protagonista dinamico, interessante e tormentato, rimanendo fedeli alla leggenda.
La sua dipendenza dall’alcool è stato più un freno o un demone dal quale fuggire attraverso il calcio?
Volevamo mostrare come i due aspetti fossero, secondo noi, collegati. Ci sono testimonianze che raccontano di Herbert con una bottiglia di whisky dietro alla porta durante le partite, un aneddoto sicuramente simpatico ma che può anche nascondere aspetti più oscuri della sua personalità. Il calcio e l’alcool sono spesso legati e molti sportivi professionisti hanno sofferto di alcolismo. Abbiamo letto le biografie di Tony Adams e Paul Gascoigne, ci hanno fornito grandi spunti e approfondimenti su come i due mondi possano coesistere. Spesso, nella storia, abbiamo esplorato come l’alcool fungesse da conforto quando le cose sul campo non andavano secondo i piani, per diventare poi uno strumento di gioia nei momenti di vittoria da celebrare. Diventava dunque difficile per una personalità,
secondo noi tendente alla dipendenza, come Herbert sfuggire alle insidie dell’alcool.
“Io voglio solo giocare a calcio” è un concetto che si ripete nel libro. L’inseguimento del sogno è diventato nel bene e nel male un’ossessione in un’esistenza di per se già tormentata?
Ci sembra plausibile che anche il rapporto di Herbert con il calcio fosse precipitato nell’ossessione. Ci interessava esplorare il perché. Secondo noi aveva a che fare con il bisogno di sentirsi parte di qualcosa, appartenere ad un gruppo, crearsi un’identità. Sul campo, per 90 minuti, aveva uno spazio che poteva chiamare casa, a cui si sentiva di appartenere. Sfortunatamente, era fuori dal perimetro del gioco che Herbert faceva più fatica.
Cosa ha rappresentato per lui la famiglia?
Se il calcio gli offriva un senso di libertà, abbiamo voluto perseguire l’idea che la famiglia fosse invece un ambiente restrittivo. Herbert era cresciuto in una casa sovraffollata con tredici fratelli. Aveva perso la madre in giovane età e senza dubbio la competizione per ricevere l’affetto e le attenzioni del padre doveva essere stata accesa tra così tanti fratelli e sorelle. Era anche il più giovane e abbiamo pensato che potesse aver avuto un legame più stretto degli altri con la madre. Volevamo utilizzare la mortalità della madre come spinta a guardare oltre ai confini di Nottingham per realizzare il suo potenziale.
Pur nell’improvvisazione tattica dell’epoca pionieristica del calcio, vi siete fatti un’idea di quale ruolo fosse il più adatto per Kilpin in campo?
Ci piaceva immaginarlo come attaccante, anche perché è ciò che risulta dalle fonti. Si parla di lui anche come regista del gioco, a centrocampo. A quel tempo la maggior parte della squadra lavorava in attacco, questo gli permetteva di agire da capo cannoniere e attaccante di riferimento, chiedendo sempre la palla in modo egoista.
Nel suo percorso di personaggio abbiamo deciso di delineare una trasformazione in cui il lato più egoista lascia faticosamente il posto alle qualità che lo renderanno un leader, come punto di approdo. È anche per questo che alla fine abbiamo voluto mostrare il più autentico atto di altruismo che, a sua volta, gli ha permesso di raggiungere il successo desiderato.
Vi siete mai chiesti cosa sarebbe successo se Kilpin fosse rimasto a Torino? Avrebbe magari
fondato un suo club nel capoluogo piemontese?
Questa è uno dei quesiti più interessanti della storia di Herbert. Non abbiamo informazioni a riguardo, certezze che ci spieghino perché abbia lasciato Torino. Tuttavia, riteniamo che in un momento sociale di trasformazione, Milano, con le rivolte dei lavoratori, il mondo industriale, i movimenti anarchici e in generale una dimensione più buia e caotica, fosse un terreno più fertile per Herbert e la sua impresa. Torino era una città ancora fortemente nobiliare, i cui rappresentanti, anche in ambito sportivo, non erano certo propensi a dare spazio e potere a persone come Kilpin. Ci pare che l’incapacità di venire accettato da quel mondo, la frustrazione di non poter guidare la squadra come avrebbe voluto, lo abbiano
portato a lasciarsi Torino alle spalle per andare alla ricerca di qualcosa che potesse considerare suo, che gli appartenesse davvero. Non aveva dunque altra scelta che crearla dal nulla la sua realtà. E così ha fatto.
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