Intervista: Cuori Partigiani

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Il libro di Edoardo Molinelli è indispensabile per meglio conoscere le storie di calciatori più o meni noti che sono stati partigiani. Ne abbiamo discusso con l’autore.

Nel farti i complimenti per il copioso lavoro di ricerca ti chiedo come lo hai affrontato ed in che modo hai selezionato le fonti.

Innanzi tutto ti ringrazio per i complimenti e per lo spazio concessomi con questa intervista. Il lavoro di ricerca è stato lungo, in pratica quasi tre anni, e piuttosto complesso perché i protagonisti del libro hanno vissuto, giocato e combattuto in zone diverse. Tra le fonti che ho consultato vi sono primariamente documenti d’archivio (molti disponibili online) e testi sulla lotta partigiana, che ho reperito in larga maggioranza nella fornitissima biblioteca dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana. Mi sono anche avvalso dell’aiuto di istituti storici, enti e associazioni come ANPI e ANED, nonché della consulenza di moltissime persone in tutta Italia. Infine ho avuto modo di parlare con i parenti di alcuni dei giocatori di cui ho scritto, ricavandone testimonianze e documenti preziosi.

Dal libro traspare grande competenza coniugata a grandissima passione, come nasce l’idea di dare risalto a figura dimenticate calcisticamente parlando e non solo?

Il libro nasce per soddisfare due esigenze. La prima: ricostruire con il maggior rigore storiografico per me possibile le vite dei protagonisti, che non meritavano l’oblio né, nei casi dei giocatori più noti, trattazioni poco approfondite e non prive di errori (spesso ripetuti, come accade con l’attuale comunicazione online). La seconda: parlare della Resistenza, un momento fondamentale della storia del Novecento italiano, da un’angolazione diversa. Credo che lo sport sia una formidabile lente d’ingrandimento attraverso cui analizzare i fenomeni sociali e politici del ventesimo secolo e dell’attualità, e che al contempo riesca a coinvolgere anche chi di solito non si appassiona a determinati argomenti. Per questo è assolutamente necessario sfruttarne il potenziale comunicativo, utilizzandolo come chiave di lettura alternativa di uno specifico momento storico.

Ho molto apprezzato come hai contenuto il più possibile il coinvolgimento politico, è stata una scelta fatta a priori?

Per me un libro di storia deve tenersi il più possibile lontano da giudizi o eventuali valutazioni politiche dell’autore, che rischiano di trasformarlo in un’operazione ideologicamente orientata che con la storiografia non ha nulla a che fare. Questo non vuol dire che il mio sia un libro neutrale: si parla di Resistenza, di partigiani e di antifascismo, ma sempre con la massima oggettività di cui sono stato capace. L’eventuale coinvolgimento dovrebbe scatta nel lettore proprio conoscendo le vite dei protagonisti, che raccontano di scelte personali e collettive, di opposizione al fascismo, di voglia di libertà. Insomma, parlano da sole.

In copertina troviamo la nota foto di Bruno Neri nel mentre si rifiuta di fare il saluto fascista; come mai la sua figura è maggiormente conosciuta rispetto ad altre da te trattate?

Direi che la fama di Neri deriva innanzi tutto dalla foto stessa, divenuta nel corso degli anni il simbolo per eccellenza dell’opposizione al fascismo degli sportivi italiani, e in secondo luogo dalla caratura del giocatore. Bruno fu infatti mediano tra i più forti della serie A nella sua epoca e arrivò anche a giocare in nazionale, era insomma un atleta di altissimo livello. La combinazione di questi due fattori con la sua tragica morte, armi in pugno, sull’Appennino tosco-emiliano durante un’azione partigiana lo ha reso indubbiamente più conosciuto della media degli altri calciatori partigiani di cui si parla nel libro.

Il ruolo di Michele Moretti nell’uccisione di Mussolini è ancora oggi poco chiaro: che idea ti sei fatto della vicenda ed in che modo hai gestito il reperimento di fonti a riguardo?

La fucilazione di Mussolini è uno degli episodi più controversi e misteriosi non solo della Seconda Guerra mondiale, ma dell’intera storia italiana contemporanea. La quantità di fonti, di testimonianze (spesso contraddittorie) e di documenti prodotti riguardo a quell’evento è sterminata e per me sarebbe stato pressoché impossibile tentare una ricostruzione della vicenda senza esondare o scrivere inesattezze. Mi sono perciò affidato alla versione di Moretti e mi sono limitato a mettere insieme alcune delle sue dichiarazioni pubblicate in vari volumi nel corso degli anni, ricostruendo secondo il suo punto di vista le vicende che portarono all’uccisione del Duce. È ovviamente una visione parziale e lo dichiaro nelle prime righe del capitolo. Sinceramente non posso sbilanciarmi sulla questione, ho una mia idea ma non è possibile provarla. Mi limito a dire che Moretti era un personaggio veramente affascinante, soprattutto per la dignità e la grande dirittura morale che traspaiono dalle sue parole.

La partita di Sarnano sembra uscita dalla penna di uno scrittore, riesci a leggerci connotati positivi nel contesto di una situazione tremenda e triste?

Della partita di Sarnano bisogna dire che si tratta di un episodio al confine tra verità e leggenda, del quale non esistono fonti documentali. Di certo si sa solo che fu disputata, ma non è confermata neppure la presenza di veri partigiani nella squadra italiana che sfidò sul campo una selezione di soldati tedeschi. Assomiglia in effetti più a un racconto di Osvaldo Soriano che a un evento realmente accaduto. Non fu però l’unica partita disputata tra occupanti tedeschi e italiani (ne riporto altre due disputate in Veneto, ma il numero è sicuramente più alto): qualcuno potrebbe trarne una morale o vederci una sorta di insegnamento, io credo semplicemente che la guerra rappresenti un orrore per la grande maggioranza delle persone che ne sono coinvolte e che perciò sia del tutto naturale cercare momenti di normalità in mezzo a una follia del genere.

Personalmente non conoscevo la storia di Gino Ferrer Callegari, le cui vicende galleggiano tra realtà e leggenda; che idea ti sei fatto a riguardo?

Callegari era di famiglia anarchica (il suo secondo nome, Ferrer, era un omaggio al grande pedagogista anarchico Francisco Ferrer, fucilato dal governo spagnolo nel 1909) e aveva mantenuto quegli ideali. Mediano molto promettente, passò alla Roma a 22 anni e sembrava destinato a un radioso futuro nel calcio, ma accadde qualcosa che ne troncò la carriera: Mussolini in persona si presentò in campo in occasione della prima giornata di campionato e passò in rassegna i giocatori giallorossi; giunto a Callegari, rifiutò di salutarlo dicendo un laconico “Ah, l’anarchico”. In realtà di quest’episodio non ho trovato alcuna conferma documentale, dunque resta un classico “si dice” impossibile da verificare. Di certo Gino fu ceduto alla Sampierdarenese al termine della sua prima stagione alla Roma e non tornò mai più in squadre di alto livello.

Un’altra vicenda poco conosciuta riguarda la realtà fiumana e le situazioni vissute dai relativi movimenti partigiani: capti anche tu un sentimento di mai decaduta vergogna da parte italiana a riguardo?

La particolarità del capitolo su Fiume è che ben sette giocatori di quella città finirono nei campi di concentramento nazisti; Icilio Zuliani vi morì, gli altri riuscirono a tornare a casa. Ci sono altre storie collegate all’Istria e alla Dalmazia, come quella di Mario Sdraulig che fu processato per alto tradimento dal governo italiano per aver combattuto con una brigata slovena. In generale si parla di un territorio con una storia estremamente complessa e delicata, purtroppo ridotta ad argomento propagandistico di bassa lega da personaggi senza scrupoli, spesso legati a doppio filo alla destra neofascista. Non so se “vergogna” sia il termine esatto ma in quel caso non dovrebbe essere solo verso gli esuli, ma anche verso tutti gli slavi che furono forzatamente italianizzati e repressi per vent’anni.

Credi che le storie da te raccontate possano avere un impatto sulle nostre giovani generazioni, talvolta tacciate di mancanza di valori?

Lasciami dire che il discorso sulla mancanza di valori e il disimpegno dei giovani è il classico argomento da vecchi bacucchi che rivendicano un’inesistente superiorità morale. Ogni generazione ha una larghissima maggioranza di “disimpegnati” e una piccola fascia minoritaria più coinvolta nelle dinamiche politico-sociali; starebbe alla scuola formare i giovani e far sì che quella minoranza acquisisca sempre più spazio, ma c’è poco da stare allegri in un paese come il nostro, nel quale l’unica politica riguardo all’istruzione è quella dei tagli. Bisogna dunque sopperire in altro modo, ma non è semplice. Ciò premesso, come dicevo all’inizio spero che questa storia sportiva della Resistenza riesca ad appassionare chi (e non mi riferisco solo ai giovani) solitamente trova l’argomento poco coinvolgente o difficile da affrontare.

Vista la situazione sociopolitica del nostro paese credi che la lotta ed il sacrificio dei partigiani sia stato concettualmente vano?

Assolutamente no. Il fatto che la lotta di tanti partigiani sia stata tradita (e mi riferisco in particolare a chi batté non solo per liberare l’Italia dal nazifascismo, ma anche per cambiare totalmente il sistema) non deve cancellare la portata del loro impegno e la forza dei loro ideali. L’esempio dei partigiani resta un memorabile momento di riscatto, nonostante i tentativi dei revisionisti recenti di ridimensionare il fenomeno della Resistenza o di farli passare per dei banditi comuni. E spero che, nel suo piccolo, anche il mio libro contribuisca a restituire alla lotta di Liberazione la sua dimensione popolare e trasversale, capace di coinvolgere anche una categoria “privilegiata” come quella dei calciatori.

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