Con nostro grande piacere Darwin Pastorin a approfondito con noi i temi del suo libro, un viaggio attraverso la storia d’Italia perfettamente connessa a quello calcistica tricolore.
Quanto la storia italiana è contrassegnata dagli avvenimenti e dai personaggi calcistici? Il calcio scandisce veramente il tempo?
Il calcio scandisce il tempo, le passioni e, purtroppo, anche i rancori. È, come intuì Jean-Paul Sartre, una metafora della vita. Il pallone è rito popolare, linguaggio, è la nostra giovinezza ripresa per mano. Può essere strumento del Potere: come i vergognosi mondiali del 1978 in Argentina, dove in uno stadio si giocava e in un altro si torturava; oppure lotta di classe, vedi il dottor Sócrates che, con la sua “Democracia Corinthiana”, contribuì a far cadere la dittatura in Brasile. E come dimenticare il pugno chiuso di Paolo Sollier, le prese di posizione di Gianni Rivera, la grande umanità di Damiano Tommasi?
L’Italia ha attraversato fasi critiche e tragiche in questi 70 anni e sembra quasi eretico prendere un personaggio calcistico come simbolo di un epoca: tu ci sei riuscito compiutamente, ma hai avuto qualche dubbio iniziale?
Nella scelta dei personaggi sono stato confortato dall’editor ed editore della collana, Fernando Masullo, per anni giornalista di punta alla Rai ed esperto di Stati Uniti, e dal favoloso disegnatore Andrea Bozzo, oltre che dal giovane, coraggioso e angelico editore Martino Ferrario. Ci sono vicende che ancora fanno male al cuore, con riferimento proprio agli Anni Settanta: come quella di Re Cecconi. Era un’Italia diventata, come scrivo, “il regno della follia e della P38. Si spara. Si muore”.
La politica da sempre entra nel calcio e lo sfrutta o lo condiziona: qual’è la tua riflessione?
Il calcio, soprattutto oggi, è affare, denaro, “piace” alla politica, ma anche a tanti imprenditori. Non dobbiamo farci più illusioni: il tempo romantico è, definitivamente, tramontato. E anche in quell’epoca, in quell’Eldorado, la politica sapeva, benissimo, come “entrare” dentro il prato verde.
I personaggi da te scelti sono epocali e in assoluto “di tutti”, quanto però il lato personale ha influito nella scelta?
Molto. Ovviamente. Anche se ho cercato, il più possibile, di guardare l’universale e non il particolare o il personale. Ci sono storie che mi appartengono e appartengono alla mia generazione, a quando eravamo giovani: quella di Gigi Meroni, la Farfalla Granata, morto travolto da un’auto mentre attraversava corso Re Umberto a Torino, è tragicamente emblematica: se ne andava un giocatore estroso, rivoluzionario, la sua fine, secondo Enrico Deaglio, anticipò il Sessantotto in Italia. Fu un’ala destra capace di portare sui campi la fantasia e l’immaginazione. Lui e il Che, morti entrambi in ottobre, nel 1967, a pochi giorni di distanza: due ribelli, due sognatori, due visionari. Uno continua a giocare, l’altro a lottare
Una delle storie più belle è quella di Pietro Anastasi, grande campione e simbolo di una classe sociale e dell’Italia del Sud. È in assoluto la tua preferita?
Pietro Anastasi! L’idolo della mia giovinezza diventato uno dei miei amici più cari. Arrivò alla Juventus nel 1968: un fantastico acquisto tecnico (era un centravanti di stile sudamericano) e sociale: diventò, lui catanese, un beniamino degli operai meridionali della Fiat Mirafiori. La domenica, grazie anche a lui, rappresentava il momento di una simbolica “tregua” tra i lavoratori che protestavano e la famiglia Agnelli
Domanda che avevo fatto anche ad Ernesto Ferrero: in che misura Omar Sivori era un vizio?
“Sivori, un vizio” è anche il titolo di un volume, assolutamente da leggere, che raccoglie i saggi sul calcio del critico letterario Massimo Raffaeli. La frase è di Gianni Agnelli: “Per il calcio Sivori è un vizio”, ti prende e ti cattura, è bellezza e folgorazione. Omar fu un artista della pelota, il Maradona degli Anni Cinquanta e Sessanta. Ho avuto la fortuna di conoscerlo: un uomo gentile, che si portava sulle spalle la gloria senza affanni e senza rimpianti
Gli scandali che hanno contrassegnato il nostro calcio che importanza hanno avuto e stanno avendo nell’evoluzione dello stesso?
Bisognerebbe sempre imparare dagli errori. Il calcio, tornando alla “metafora della vita”, non è e non sarà mai un’oasi di pace e di innocenza. Ancora oggi lo stadio raccoglie la violenza, il razzismo, il sospetto. Abbiamo sempre il dovere, soprattutto noi addetti ai lavori, di vigilare. Ma il football rimane, sempre e comunque, il mondo della meraviglia. “La quiete e l’avventura”, per dirla con il poeta Maurizio Cucchi
I bellissimi disegni di Andrea Bozzo sono significativi e perfetti per connettere personaggio ed annata di riferimento: come nasce la collaborazione?
Andrea Bozzo è un fuoriclasse, assoluto. Ogni suo disegno è un racconto. Grazie a lui “Storia d’Italia ai tempi del pallone” è diventato un libro prezioso, completo, da leggere e da guardare. Poi, ho la fortuna di lavorare con Marta Maimone, che cura, alla perfezione, la comunicazione per CasaSirio.
Dedichi una capitolo a Balotelli, stigmatizzando giustamente i voli attacchi razzisti a beceri da lui subiti. Credi che siano stati solo questi a limitarne la carriera?
Io sono nato a San Paolo del Brasile, figlio nipote e pronipote di migranti veneti. Detesto, con tutte le mie forze, con tutta la mia rabbia, con tutta la mia storia, qualsiasi forma di razzismo. Il Balotelli giovane ha dovuto subire di tutto e di più. E ci sono altri Balotelli, non solo in Italia, presi di mira, partita dopo partita, per il colore della loro pelle. È ora di finirla
Il capitolo finale dedicato a Pasolini e Arpino è magnifico. Quanto mancano al giornalismo tali personaggi, aggiungendoci anche Brera e CaminitI?
Moltissimo. Mancano moltissimo. Giovanni Arpino insegnò ai noi cronisti a essere, soprattutto, “bracconieri di storie e personaggi” e Vladimiro Caminiti a cominciare sempre “il racconto della partita dal verde del prato e dall’azzurro del cielo”
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