STADI D’ITALIA

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Ciao Sandro e benvenuto su Bibliocalcio. Il massimo esperto di Stadi in Italia non poteva mancare sul nostro sito. Il successo del tuo libro, arrivato alla terza edizione, del resto ti ha preceduto. Un’opera la tua davvero completa, una ricerca minuziosa e se permetti anche appassionata. Ma com’è nata la tua passione per gli stadi?

 

Ciao Antonio, ciao Bibliocalcio.

Le passioni, come i sogni, vengono da lontano e il più delle volte seguono un percorso incerto e tortuoso, distante anni luce dalle rapide conclusioni della logica e della mente. Così, non rimango sorpreso nel chiedermi io stesso dove siano nati il mio interesse per gli stadi di calcio e la volontà di raccontarne la storia. Certi libri vanno scritti comunque, perché così sono alcune storie. Devono essere raccontate e basta, qualcuno lo avrebbe fatto al mio posto, prima o poi. Quella dei nostri stadi, tra l’altro, è una gran bella storia, perché non raccontarla? “Il mondo è fatto per finire in un bel libro” diceva Mallarmé, ed è proprio così. Un viaggio della memoria attraverso mille ricordi di uomini e donne del nostro bellissimo Paese. Una storia molto italiana, forse segnata da errori, sprechi, degrado, eccessi e approssimazione, ma anche ricca di gloria e talento. La loro storia, la nostra storia. Dei nostri campi, peraltro, meglio raccontare il ricco passato piuttosto che il vuoto odierno e l’incerto avvenire, legato a fumosi e sinistri progetti di edilizia commerciale.

Sapere di aver recuperato una storia e averla trasmessa ad altri regala a tutti un lampo di immortalità sulle cose, una sorta di vendetta contro la tirannia dell’effimero e dell’inutile che tristemente riempie i nostri giorni. Scrivere è magnifico, ma leggere è divino. Dona a tutti un paio di ali per volare lontano. È questo, e nient’altro, che mi ha spinto a raccontare alla tribù del calcio la storia dei nostri stadi. E poi il desiderio dì vincere l’oblio calato sui nostri campi, dimenticati senza un perché, pur essendo lo scrigno dei ricordi e delle emozioni per intere generazioni di italiani.

In verità fin da bambino ho sempre avvertito forte il fascino degli spalti, il richiamo di tribune e gradinate, a partire da quelle dell’Arena Garibaldi che fissavo mentre Pisa e Livorno se le davano di santa ragione sul campo. Seguivo gli spostamenti di mio padre, allora pilota militare, e finivo per affezionarmi non alle squadre, ma agli stadi. “Girovago come un calciatore, appassionato di stadi come un ultrà. Senza essere né l’uno né l’altro, la vita di Sandro Solinas sembra persino essere stata scritta in funzione del suo libro”. Così dieci anni fa riportava un articolo di presentazione ed è una descrizione in cui mi riconosco in buona parte.

 

 

– Qual è il livello medio degli stati in Italia? Siamo davvero indietro rispetto al resto d’Europa?

I luoghi che da noi ospitano le partite di pallone sono la cartolina di un Paese che sarà pur sempre nel G8 ma, quanto a infrastrutture e investimenti, ha sempre avuto una visione di breve respiro. Negli ultimi dieci anni in Europa sono stati costruiti o ristrutturati 137 stadi per un investimento totale di 15 miliardi di euro. Di questi solo tre in Italia, per un investimento di 150 milioni di euro. Questo dimostra inequivocabilmente come non ci sia stata attenzione per le infrastrutture, per mancanza di visione e per l’incapacità di valorizzare gli impianti esistenti. Siamo la terra delle opere incompiute, degli stadi più vuoti e vecchi, l’età media supera i sessant’anni, quasi uno stadio su due fu costruito quando l’Italia era ancora un regno e non una repubblica. La maggior parte dei campi ha o ha avuto la pista di atletica, in Serie B e C si vedono addirittura velodromi. Per quasi l’80% di essi, la pista viene utilizzata solo in rarissime occasioni e con scarsa presenza di pubblico, con l’evidente conseguenza che solo in pochi casi l’abbinamento pista di atletica/stadio rappresenta una giusta scelta progettuale e gestionale.

La mancanza di investimenti in infrastrutture e servizi, l’assenza di una visione di lungo periodo e di un management in grado di comprendere appieno tale situazione, hanno comportato una gestione fallimentare degli stadi di calcio italiani protrattasi per anni, divenendo, senza dubbio, una delle principali cause del vistoso calo di spettatori riscontrato in Italia nel nuovo millennio anche se molti addossano ancora all’invadenza televisiva ogni colpa e responsabilità per il crollo di presenze sugli spalti. Ma ci sono diversi altri fattori che hanno concorso a svuotare gli stadi, non ultimo il modesto spettacolo offerto dalle squadre sul campo, la sensazione sempre più forte che i risultati siano di fatto decisi altrove, il preoccupante sradicamento delle squadre dal territorio e dalla comunità, tra titoli in vendita, disinvolti trasferimenti, società nomadi, loghi spersonalizzati e cattedrali nel deserto. Ci sono inoltre le molte difficoltà, i costi e le restrizioni per l’acquisto del biglietto. A Londra e a Berlino il tifoso gode di un rispetto e di un trattamento sconosciuto alle nostre latitudini. Non è un potenziale delinquente ma una reale risorsa.

La situazione attuale in Italia mostra un ritardo preoccupante nella gestione diretta anche delle attività interne allo stadio, tra cui l’affitto di sale per l’organizzazione di eventi o di conferenze, la vendita diretta degli spazi pubblicitari, la gestione della ristorazione, dell’area ospitalità, dei parcheggi, dell’area commerciale.

Come conseguenza siamo caduti, anzi precipitati, anche nei numeri dei bilanci. Nel 1993 il Milan era primo al mondo per fatturato, oggi è molto indietro. Spagnoli e inglesi hanno raddoppiato i ricavi, noi siamo suppergiù fermi ad allora. Nel 2003 Barcelona e Roma avevano le stesse entrate da botteghino, circa 40 milioni di euro; oggi i blaugrana sono sei volte superiori. Molte società italiane, inutile essere ipocriti, sopravvivono grazie alle plusvalenze, gonfiate come non mai, ma indispensabili per evitare ricapitalizzazioni, tenuto conto che i costi non sono nel frattempo diminuiti.

 

 

– Torniamo al tuo libro, 700 pagine, 198 città c’è proprio tutta l’Italia? Rimpianti per aver lasciato fuori qualche stadio che avrebbe meritato un posticino?

 

No, non c’è tutta l’Italia, non può esserci perché Stadi d’Italia è un lungo viaggio senza una vera fine e un vero principio. Del resto il libro si apre con le parole di Borges che ci ricordano come ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada lì ricomincia la storia del calcio. Cambiano e si aggiornano i protagonisti di questo lungo racconto, ma non muta lo spirito che da sempre alimenta e dà un senso al libro, il desiderio di raccontare noi stessi, la nostra storia, la nostra città, la nostra comunità. E’ un cammino che si rigenera, peraltro, perché ogni edizione viene ampliata con nuove città, nuovi stadi, nuove storie. E le storie dentro ogni storia. Sono oltre cinquanta le città aggiunte in questa nuova edizione del libro; alcune legate all’ingresso, o al ritorno, delle squadre locali nel calcio professionistico (Mestre, Arzachena, Bisceglie, Lentini, Ponsacco, Gavorrano, Santarcangelo di Romagna etc.), altre inserite come doveroso omaggio al glorioso passato delle loro arene (Torre del Greco, Trani, Gorizia, Seregno, Jesi, etc.); altre ancora senza un vero perché, se non quello dell’interesse e della curiosità che suscitano in me e – spero – in chi ne leggerà: Sondrio, Montecatini Terme, Oristano… senza dimenticare veri e propri gioielli nascosti, come Terracina, Orbetello e Piombino, poco conosciuti ma estremamente ricchi di storia. Mi piace pensare al mio lavoro di ricerca come al punto di partenza per qualcun altro. E così si spiegano alcune assenze ingiustificate, la poesia dello Stadio dei Fiori di Valdagno, l’eccentrico delirio del campo di Battipaglia, il ricordo delle battaglie al Capozza di Casarano, e poi ancora le dignitose arene di Senigallia, Voghera, Civitanova Marche, etc. Senza dimenticare i tanti campi apparsi nelle prime edizioni e impietosamente tenuti fuori da quelle successive. A chi interessa più il campo di Castelnuovo Garfagnana, quello di Monte San Savino, quello di Tolentino pur con il suo suggestivo ingresso realizzato da Angelo Zanelli? E poi l’impaginatore, superate le settecento pagine, ha minacciato di abbandonare il lavoro!

 

 

– La tua ricerca decennale ti rende indubbiamente il maggior esperto italiano del campo, per questo non posso esimermi da farti “la” domanda. Qual è a tuo avviso lo stadio che merita la palma di migliore impianto italiano, e quale invece il peggiore? Ovviamente dicci anche il perché.

 

Io non amo le moderne arene e non sono granché interessato al comfort e alla visibilità, anche perché vado poco o nulla allo stadio. Peraltro ben pochi sono oggi i nostri stadi degni di nota sotto il profilo architettonico, se si eccettuano le suggestive arene costruite ancora nell’era fascista. Del resto, sono proprio gli impianti a non lasciarsi amare, avviliti tra scomode tribune in tubi metallici e poco eleganti soluzioni architettoniche figlie di discutibili ristrutturazioni ripetutesi nel tempo. Un patrimonio affettivo e nulla più. Oneste arene ovali senza troppe pretese, seppur spesso di grandi dimensioni. Si salvano solo i campi che possiedono una loro identità, quelli che, indipendentemente dai risultati raggiunti dalla squadra che ospitano, trasudano storia, tradizione e ricordi. E che ti lasciano assaporare l’acre odore inebriante delle mille sfide infernali che ogni campo polveroso porta con sé, trascinandolo tra gli spalti al centro del cuore di ogni tifoso, l’unica vera arena che conta.

A me piace il Nereo Rocco di Trieste, anche il San Filippo di Messina non sarebbe male se solo avesse uno straccio di copertura e fosse tenuto dignitosamente. E poi il Ferraris di Genova, il magnifico Flaminio, il superbo profilo allungato del vecchio Olimpico con i suoi spalti di travertino. Trovo notevoli sono anche strutture minori come i campi di Lucca, Foggia e Mantova. Quest’ultima però è stata sfigurata dalle immancabili tribune metalliche necessarie ad assicurare una capienza minima per la categoria. Che senso ha costringere piccole realtà come Cittadella ed Empoli ad erigere strutture sovradimensionate destinate inevitabilmente a rimanere vuote? Non avrebbe più senso fissare un limite minimo per il solo settore ospiti e lasciare le società libere di individuare la giusta capienza complessiva dell’impianto? Avremmo stadi più confortevoli e gradevoli con minori spese.

Poi, c’è il san Nicola di Bari che, a mio avviso, rappresenta ciò che uno stadio non dovrebbe mai essere. Come il Municipale di Braga, in Portogallo, realizzato dall’architetto Souto Moura e tutti gli impianti griffati progettati da architetti più o meno celebri che probabilmente non hanno mai messo piede in uno stadio. E poi ci sono orrori genuini, come lo sfortunato stadio Domenico Purificato di Fondi.

 

 

– Questa è la terza edizione del libro, come mai questa volta hai deciso di autopubblicarti senza affidarti ad una casa editrice?

 

Perché da oltre cinque anni il libro non era più in commercio e, di fatto, per molti lettori interessati rimaneva inarrivabile. Come le eleganti edizioni speciali, curate dall’Istituto di Credito Sportivo nel 2013 e nel 2017, riservate a soci e partner dell’istituto e passate  inosservate tra la tribù del calcio. Così, tra ritardi, indecisioni e indifferenza da parte di quegli ambienti che, a mio avviso, più di altri dovrebbero invece sostenere, promuovere e valorizzare certe ricerche come patrimonio di conoscenza della cultura sportiva italiana, l’anno passato – terminata l’estate – decisi di fare da me, occupandomi in prima persona dell’impaginazione, della stampa, del finanziamento, della promozione, dei pagamenti, dei rapporti con i media. Un’avventura. Un’esperienza non semplice ma costruttiva, ne valeva la pena. Certe cose vanno fatte e basta, a volte (lo avevo già detto?).

 

 

– Quanto è stata dura scrivere un libro di tale portata?

 

Una faticaccia, credimi. Al di là dei tanti incidenti di percorso, il nemico numero uno è stato fin dall’inizio il triste oblio calato sui passato dei nostri stadi. La prima edizione, nel 2008, mi portò via circa sei anni, rubando il tempo a mille altri impegni. Da lì in poi il lavoro di ricerca non si è più fermato. E la rete quindici anni fa non aveva le agevoli autostrade dei social, si lavorava soprattutto attraverso i più spartani e meno affollati forum delle tifoserie. Un libro scritto a due-trecento mani, insomma. Ma anche mille libri consultati qua e là, gli uffici tecnici del comune, gli addetti stampa delle società. Ho sgomitando come un terzino legnoso, entrando spesso a gamba tesa. Il lavoro più duro è stato proprio rendere omogeneo il contenuto della documentazione, proveniente da un numero assai consistente di fonti, tutte regolarmene citate, quando necessario. Ma è stato interessante, a mio avviso, recuperare anche l’antica tradizione orale, ascoltando le memorie dei tifosi più attempati senza preoccuparsi troppo della totale veridicità delle informazioni. Ne sono usciti spesso aneddoti improbabili ma gustosi. Ho cercato di favorire il testo, mi sembrava più interessante. E’ un libro che guarda più al passato che al presente, indubbiamente. Come il suo autore. Non mancano tuttavia le immagini, sono più di duecento, tutte rigorosamente aeree. Per quelle d’epoca ho chiesto aiuto ad alcuni amici collezionisti di cartoline.

 

 

– Il libro riporta praticamente tutti gli stati italiani con i relativi nomi. Eppure c’è una clamorosa assenza. Nessun impianto italiano porta il nome di Vittorio Pozzo, come mai?

 

Fino alle scarne e tardive intitolazioni degli ultimi anni, gravava una becera damnatio memoriae sull’allenatore piemontese, l’unico commissario tecnico vincitore di due edizioni del campionato del mondo, peraltro consecutive, oltre all’oro olimpico conquistato a Berlino. Una censura imposta da quelli che il grande Pansa chiama i gendarmi della memoria, uomini piccoli piccoli che si nutrono di odio e rancore. Ma io sono un uomo libero (settecento pagine di stadi costruiti negli anni Trenta senza mai nominare le leggi razziali, pensa un po’), su Stadi d’Italia sono tanti i riferimenti e soprattutto le verità scomode che ho deciso di raccontare.

 

 

– Ti metto ancora in difficoltà con una domanda spinosa. Nel volume ci sono le foto a colori di ciascun impianto. Nella tua lunga ricerca qual è stato lo stadio che ti ha affascinato maggiormente?

 

Visivamente mi ha stregato la doppia tribuna del campo di Rovigo, i vecchi spalti che come uno spettro del passato appaiono alle spalle della nuova tribuna. Il passato che non passa. E la somiglianza degli stadi costruiti da Rozzi: Avellino ed Ascoli (ma anche Lecce) sono assai simili, quelli di Benevento e Campobasso pressoché identici. Poi ci sono i dettagli cult, le visioni iconiche, come le scale di San Siro, quelle elicoidali del campo di Firenze o gli archi bolognesi ripresi dalle terme di Caracalla. Ma ciò che davvero mi ha affascinato è stato il campo di Orbetello, di fatto l’impianto più piccolo tra quelli presenti nel libro con la sua modesta tribuna scoperta in grado di accogliere solamente cinquecento spettatori. Sospeso oltre il tempo e lo spazio dinanzi alle acque placide della laguna, stretto com’è tra le vecchie mura della fortezza spagnola e l’idroscalo da cui si levava in volo Italo Balbo nelle sue memorabili trasvolate atlantiche.

 

 

– Tra le pagine del libro emergono diversi aneddoti curiosi legati ai vari stadi. Qual è quello più simpatico che hai avuto modo di raccontare?

 

Tantissimi gli aneddoti ascoltati (e raccontati) in questo lungo viaggio attraverso la storia dei nostri campi. Da quelli più tristi, la maledizione del Filadelfia, a quelli più inquietanti – la tragica storia del Ballarin – fino a quelli più divertenti come lo sconclusionato rito barese, vanamente sperimentato nel ’49 per risollevare le sorti della formazione biancorossa, che vide lo sconcertante accoppiamento tra il custode del campo ed una donna di vita sotto una porta del terreno di gioco a poche ore dalla gara con il Novara. L’incontro terminò a reti bianche, poi l’esperimento – chiamiamolo così – venne ripetuto senza successo due settimane dopo alla vigilia della gara con la Pro Patria prima di essere abbandonato definitivamente (tra il probabile disappunto del magazziniere, il quale sosteneva che la classifica si era mossa).

 

– Come sono stati gestiti i fondi di Italia ’90 legati allo sviluppo dell’impiantistica?

Siamo ancora lì a leccarci le ferite dello sciagurato Mondiale 90: impianti nati vecchi, sperpero di denaro pubblico, nessuna attenzione al post-evento. Da allora non è successo molto altro, a parte gli interventi per la messa in sicurezza, a colpi di decreto e deroghe del prefetto, quasi sempre sull’onda emotiva di fatti incresciosi, come l’omicidio dell’ispettore Raciti del 2007.

 

 

– Veniamo all’attualità. Il futuro è davvero negli stadi di proprietà e perché in Italia è così difficile per una società costruire uno stadio di proprietà?

 

La legge-fantasma sugli stadi (la 147 del 2013, modificata nel 2017) si è trasformata in una sorta di mantra per i presidenti di società, che a turno l’hanno invocata come strumento indispensabile per avviare l’ammodernamento degli stadi. Ma Juve, Udinese e Frosinone sono andate avanti e hanno costruito i loro impianti. Le altre preferiscono limitarsi a progetti chiusi in un cassetto, sperperando i milioni ricevuti dalle tv in stelle o presunte tali e arricchendo procuratori e agenti. La legge è arrivata ma la situazione finanziaria del Paese non permette forti iniezioni di liquidità per cambiare il sistema impiantistico. Oggi la situazione si presenta come una forsennata caccia all’oro, lo stadio di proprietà visto in Italia come una buona idea patrimoniale per sanare i bilanci in rosso dei nostri club, una perigliosa iniziativa che scatena appetiti mai sazi di imprenditori del calcio che si stanno affidando a banditi, avventurieri e palazzinari contando su amministrazioni pubbliche con le casse vuote e la necessità di consenso. Il rischio è lo stravolgimento di ampie aree della media periferia delle metropoli italiane e la perdita di un patrimonio sportivo e urbanistico. In ogni caso non vi è un legame diretto tra stadi pieni e stadi privati. Questi ultimi esistono solo in Inghilterra, mentre in Francia e Germania vi sono forme di partecipazione mista. Non esiste un modello perfetto, ogni Paese deve trovare la sua formula in base alle situazioni storiche, sociali, culturali ed economiche che lo caratterizzano.

 

 

– Con gli stadi di proprietà, in Europa e adesso anche in Italia, è emersa la tematica legata ai naming rights. Al netto degli indubbi vantaggi economici, non si perde così quel senso di appartenenza che lega una città e una tifoseria al proprio stadio?

 

Per come la vedo io, gli abbinamenti commerciali sono una questione marginale, come i seggiolini colorati che tanto infastidiscono gli ultrà. Sono un male necessario, mettiamola così. Ad uccidere il calcio è ben altro,

 

 

– Oggi ci sono i tornelli, il biglietto nominativo, le “gabbie” per i tifosi in trasferta (per non parlare delle barriere di protezione tra campo e spalti), ecc. Tutto questo favorisce o meno l’affluenza del pubblico negli stadi italiani?

 

È una condanna a morte per molti stadi storici. Ad allontanare gli stadi (e dunque il calcio e la gente) dalle città sono proprio le gabbie, i tornelli, le aree pre-filtraggio, gli immensi parcheggi e tutte quelle cose di cui non abbiamo mai sentito il bisogno in oltre un secolo di calcio. Stiamo andando verso stadi virtuali e gare asettiche vissute su schermi ultrapiatti e comodi sofà. Sradicare il calcio dalla gente e dalle città è sempre stato il grande sogno del football 2.0 fin dai tempi di Platini e Blatter. Così, del resto, si spiegano i Mondiali in Qatar e gli Europei itineranti. Per non parlare di nazionali multietniche del tutto slegate dal territorio e dalla comunità e squadre ridotte ormai a brand apolidi, tra disinvolti trasferimenti e sconcertante mercimonio di titoli sportivi.

 

– Ti faccio una domanda provocatoria, legata alla sicurezza negli stadi. Ogni domenica centinaia di agenti delle forze dell’ordine sono impegnati in ogni parte d’Italia per garantire l’ordine e la sicurezza durante le gare. È giusto a tuo parere che i costi gravino sulla collettività invece che sulle singole società?

 

No, non è giusto, ma vorrei che a fare un passo indietro fossero tutti. Anche gli ultrà. C’è vita fuori dal branco.

 

 

– Perché leggere “Stadi d’Italia”? A chi si rivolge il libro?

 

Premesso che un libro di due chili e settecento pagine farebbe comodo a ogni prode ultrà in caso di tafferugli, Stadi d’Italia è un libro rivolto a chi ama le storie italiane. E il calcio di ieri e l’altro ieri.

 

 

– Che progetti hai per il futuro? C’è un altro libro in cantiere?

 

Vorrei finalmente terminare un vecchio progetto su cui sto lavorando da anni, storie di stadi che non sono più tra noi. Ancora stadi, è vero, ma in una prospettiva molto diversa, dando spazio a temi e linguaggi narrativi differenti. E poi basta, che siano altri a raccontare il finale della storia, magari è la volta buona che torno a occuparmi di temi più nobili, soprattutto la storia medievale e la letteratura del fantastico, mie vecchie passioni. Mi piace molto seguire i progetti dei colleghi, spesso sono io stesso a suggerire i lavori di ricerca e non ho mai fatto mancare il mio contributo, per quanto possibile. E mi piacerebbe poter collaborare davvero con i signori del calcio, quelli della Lega, della Federazione e del CONI, far capire loro che le radici sono importanti quanto i progetti futuri; ma parliamo due lingue diverse, viviamo su pianeti distanti, del resto l’Italia quattro volte campione del mondo non ha neppure un vero Museo del Calcio. E allora a poco servono le prestigiose prefazioni che introducono i miei libri, da Tavecchio a Malagò, da Uva ai ministri Lotti e Delrio, tutta gente con cui, peraltro, non mi sono mai neppure incontrato di persona. E poi c’è il progetto più interessante di tutti, quello di un programma a puntate per la televisione sempre sul tema della storia dei nostri campi. Qualcosa si sta muovendo, speriamo. Altrimenti torno a tormentarvi con altri illeggibili mattoni letterari stile Kotiomkin.

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