Intervista-Qarabag, La Squadra Senza Città Alla Conquista Dell’Europa

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Il libro di Emanuele Giulianelli è sicuramente una delle uscite più interessanti del 2018, in quanto inerente ad un argomento di grande interesse ma poco conosciuto e dibattuto nel nostro paese. Ne abbiamo parlato direttamente con l’autore.

Come nasce la tua attenzione verso l questione del Nagorno-Karabakh e secondo te come mai in occidente tale drammatico scenario viene quasi totalmente ignorato?

Come ho già avuto modo di spiegare in altre interviste, su media italiani e azerbaigiani, Il mio interesse per la vicenda del Qarabag parte da lontano, precisamente da un viaggio in Armenia che ho fatto con la mia famiglia tra la fine di agosto e la prima metà di settembre del 2009: durante la mia permanenza in quei luoghi, ho sentito per la prima volta parlare di Agdam, la città fantasma, la città rasa al suolo durante il conflitto del Nagorno Karabakh. Un conflitto la cui eco nei primi anni ’90 arrivò fino da noi: ricordo chiaramente i telegiornali dell’epoca menzionarla, ma nella stragrande maggioranza dell’opinione pubblica quel conflitto non ha mai avuto una chiara spiegazione. Siamo, per nostra formazione culturale, portati a pensare che i conflitti su base etnica siano una peculiarità africana, dimenticando che ne abbiamo avuto uno enorme a due passi da casa e che il Caucaso pullula di guerre più o meno piccole che hanno radici in motivazioni di carattere religioso o etnico. Ricordo che durante il mio viaggio provai a raggiungere Agdam, ma era off limits e troppo pericolosa, mi dissero: la linea del fuoco è a due passi ed è presidiata da entrambi i lati da cecchini pronti a sparare a vista. Così rinunciai, ma da quel giorno la storia di quel posto e di quella gente è sempre stata presente in una angolo del mio cervello. Inizialmente non c’era l’idea di un libro, ma solamente uno di quei pensieri che ciclicamente ronzano nella mente e che ripete incessantemente e semplicemente Agdam. Poi arrivò il mio inizio con il giornalismo, le mie collaborazioni con testate via via più importanti e il desiderio di far conoscere al mondo quella storia così poco nota, ma che doveva (in un senso imperativo morale) essere raccontata. Così ne scrissi su Eurasianet.org, uno dei maggiori siti di geopolitica del mondo, sulla rivista ufficiale della FIFA e, via via negli anni, sul Corriere della Sera e altri media italiani e internazionali. Finché non ho preso la decisione, con il materiale raccolto nel corso degli anni e i contatti rimediati di giocatori, giornalisti, personaggi politici, di scrivere un libro che narrasse la vicenda nel modo più preciso e oggettivo possibile. Come scrivo nel primo capitolo del libro: “Quello che tenterò di fare è raccontare una storia: parlare di ciò che è stato e di ciò che è, con qualche tentativo di ipotizzare ciò che sarà o potrà essere. O che non potrà mai essere. Non mi perderò in polemiche, non cercherò di dire chi ha ragione o chi ha torto: perché in un conflitto tra vicini di casa in cui perdono la vita tra i 1.500 e 2.300 civili e tra i 25.000 e i 36.000 militari, con un milione di profughi costretti a lasciare le proprie case, in una guerra che si protrae per anni, per lustri, per decenni, la ragione si perde.Il motivo per cui quello scenario viene ignorato in occidente, a parte l’eco lontana che ci arrivava nei primi anni del conflitto come ho già accennato, deriva dal fatto che non sono in ballo interessi economici che ci coinvolgono. Se non c’è di mezzo il petrolio o il denaro, per noi certe guerre, semplicemente, non esistono. Figuriamoci poi se il conflitto riguarda un angolo del pianeta che in pochi sanno anche collocare, dal nome così difficile da pronunciare.

Seppur complicato fare previsioni in un contesto così complicato, quale potrebbe essere per te lo scenario futuro del Nagorno-Karabakh?

Questa domanda meriterebbe un libro a parte. Una chiave di lettura per poter provare a ipotizzare uno scenario futuro o futuribile per il Nagorno Karabakh è quella che nel libro dà Mario Raffaelli, il primo a guidare il cosiddetto Gruppo di Minsk, colui che riuscì nell’intento di far sedere tutte le parti in conflitto a un tavolo di pace (e non fu affatto impresa facile!). La soluzione attuale, che è una non soluzione, di fatto sta bene a tutti; affinché qualcosa cambi, citando Raffaelli: “è necessario che maturi nelle leadership dei Paesi coinvolti un’opzione di stabilizzazione. Non c’è dubbio che se non c’è una maturazione nei gruppi dirigenti verso una stabilità diventa assolutamente impossibile che ci sia una soluzione duratura: dev’esserci un interesse da parte di chi gestisce, che ha un ruolo di fatto determinante nel far pendere la bilancia da una parte o dall’altra”. Una soluzione auspicabile, secondo lo stesso ex sottosegretario del governo italiano, è quella del modello altoatesino. Ma, per come stanno le cose oggi, non è facile ipotizzare una vera e propria soluzione, almeno nel breve periodo.

L’Unione Sovietica prima e la Russia attualmente hanno sempre avuto un ruolo attivo nella zona, non lesinando interventi armati spropositati, anche per interessi non proprio leciti, quale è la tua opinione in merito anche in relazione al futuro?

Come ho fatto intendere nella precedente risposta, la Russia potrebbe avere un ruolo chiave, ma lo sta utilizzando male. Riprendo ancora una volta una frase di Mario Raffaelli, chiara e diretta, senza troppi giri di parole: “Nella questione del Karabakh, la Russia, la maggiore potenza della regione, non è interessata a una soluzione stabile, ma vuole giocare un ruolo a favore degli uni o degli altri a seconda del momento, per poter mantenere la sua presenza militare molto forte nell’area e per poter continuare a fornire armamenti a entrambi le parti in lotta.

Essendo stato a Baku ed avendo frequentato l’ambiente del Qarabag, è ancora vivo il senso di appartenenza verso la città di Agdam?

La risposta che mi verrebbe da dare a bruciapelo è: sì. Il Qarabag è Agdam, come scrivo nell’incipit del libro, il Qarabag rappresenta la gente di Agdam, i suoi profughi, le case distrutte, le strade che non esistono più e un sogno di ritorno che fa molto pensare a quello del popolo ebraico verso la Terra promessa o (ironia della situazione) a quello degli armeni verso l’Ararat. In molti mi hanno detto che il sogno è tornare a giocare ad Agdam un giorno; nei fatti, però, dopo poche partite a Guzanli, nella regione di Agdam, il Qarabag è tornato a giocare a Baku: la zona è irraggiungibile e la logistica non è di un livello tale da poter ospitare incontri importanti. Il forte rischio, di fatto, è che il Qarabag diventi sempre più una squadra di Baku e sempre meno di Agdam. La capitale, in questo, ha uno scontato, ma enorme, vantaggio: esiste, come esistono le sue mille luci e i locali nei quali i calciatori possono divertirsi, i negozi dove possono fare shopping, le belle case dove possono vivere; Agdam, invece, non esiste più. Esiste solo nel ricordo, nell’epica mi verrebbe da dire, nei racconti di chi l’ha vista e vissuta: affinché il Qarabag rimanga di Agdam, di fatto, è quindi essenziale narrazione continua e, a volte, addirittura ossessiva di quello che è stato, affinché non si perda la memoria. Non è retorica, quindi, ma ragione di esistere. Ecco perché l’ossatura del club, magazzinieri, allenatori delle giovanili, massaggiatori, sono tutte persone di Agdam o che hanno vissuto la squadra in quegli anni: chi arriva, anche dall’estero, deve respirare quell’aria, entrare in quella mentalità e sentirsi parte di qualcosa di diverso, di unico. Di una famiglia: perché questo è ciò che il Qarabag è, essenzialmente.

Il Qarabab è una realtà calcistica che sta indubbiamente crescendo, attirando anche giocatori di indiscutibile valore (Michel,Dani Quintana, Emeghara,Agolli, Halldórsson), credi possa consolidarsi nel contesto del calcio europeo?

Sì, ma sarà di fondamentale importanza, a mio modo di vedere, affinché ciò accada, che il livello del campionato azerbaigiano cresca: solo con un livello competitivo che sale, il Qarabag potrà crescere a livello europeo. E quest’anno si vedono buoni segnali da questo punto di vista, basta vedere la classifica in questo momento con un Neftchi che, sotto la guida di Roberto Bordin, sembra finalmente pronto a tornare ai suoi livelli e dare filo da torcere alla squadra di Gurbanov fino all’ultimo per la lotta al titolo nazionale.

Può il calcio azerbaigiano diventare uno dei punti di riferimenti continentali alla luce dei massici investimenti fatti ed alla realizzazione di strutture come lo Stadio Olimpico di Baku?

Da un punto di vista degli investimenti dico sì: l’Azerbaigian sta puntando forte sullo sport e sul calcio in particolare, scegliendo di mettere molto denaro nella costruzione di infrastrutture come lo Stadio Olimpico che diano risalto alla nazione intera. I risultati si vedono, perché l’Azerbaigian, pur essendo geograficamente nella periferia del continente, ormai è al centro dell’Europa calcistica, visti i prossimi appuntamenti come la finale di Europa League del 2019 e le partite degli Europei 2020. E il meglio, come diceva Obama, deve ancora venire.

 

 

 

 

 

 

 

 

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