Il libro di Luca Pisapia ci racconta il grande Gigi Riva in modo splendido, alternando con abilità e stile le storie di campo alle dinamica sociali del nostro paese. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Cosa rappresenta oggi la figura di Gigi Riva per il calcio italiano?
Gigi Riva è un eroe, e come tale è un personaggio multiplo e complesso che può essere letto e raccontato in mille modi, tutti giusti. A me della figura dell’eroe interessa il suo destino inevitabilmente tragico, di uomo che guarda negli occhi sconfitta, si ostina a combattere contro i mulini a vento, si ostina a perdere. Per questo il “mio” Gigi Riva è raccontato come un (anti) eroe degli spaghetti western, perché non è in grado di salvare nessuno, men che meno se stesso. Al limite, con scelte di campo nette e prese di posizione decise, può indicare un sentiero luminoso che, si spera, saranno altri a percorrere. Gigi Riva è anche un demiurgo, una figura semi divina che plasma la realtà di un mondo che attraverso di lui si racconta, si mette a nudo, in tutte le sue meraviglie le sue miserie. Raccontare la storia di Gigi Riva significa potere raccontare la storia di un paese che con il boom economico scambia la libertà con il consumo e pensando di sognare si risveglia in un incubo. Gigi Riva è la storia di quello che è stato e l’ipotesi di tutto quello che avrebbe potuto essere.
Credo che sia stato più importante lui per la Sardegna o la Sardegna per lui?
Tutto è creato dalla terra, quindi anche Gigi Riva è stato creato dalla terra, in particolare dalla Sardegna. E siccome la terra che lo ha creato era il set perfetto per l’immaginario degli spaghetti western che si diffondeva in quegli anni, Gigi Riva è diventato Django, Chucnho, Armonica, Silenzio, il dinamitardo Sean Mallory. Detto questo, se la Sardegna ha creato Gigi Riva è perché aveva bisogno di Gigi Riva, affinché questa terra fosse plasmata sotto nuove forme.
Possiamo dire che Gigi Riva sia stato l’uomo giusto al posto giusto sia per la nazionale che per il Cagliari?
Sarebbe bello poterlo dire, ma non vivendo ancora nel migliore dei mondi possibili alla poesia deve necessariamente accompagnarsi la prosa. E allora va ricordato che c’erano degli interessi economici, politici e industriali che avevano bisogno che il Cagliari e l’Italia arrivassero dove sono arrivati, con o senza Gigi Riva. L’eroe può indicare la strada, il demiurgo plasmare la terra, ma poi sono i rapporti economici di produzione a indirizzare la storia.
Esiste una relazione di causa/effetto tra le difficoltà della sua vita ed il suo essere un Hombre Vertical?
Sì, sul sentiero del piccolo Luigi Riva da Leggiuno la vita ha fatto cadere ostacoli di atroce sofferenza, enormi massi difficili da spostare o anche solo da superare. I racconti della sorella Lucia sono emblematici in questo senso. Sicuramente Gigi Riva nel suo diventare hombre vertical è il proseguimento, forse l’approdo, del sentiero su cui ha dovuto camminare il piccolo Luigi Riva.
Dal punto di vista tecnico credi che ci sia stato qualcuno che ne abbia rinverdito i fasti?
Non lo so, perché per questioni anagrafiche di Gigi Riva ho potuto vedere solo i “riflessi filmati” e perché in generale non mi appassionano i paragoni, non li capisco. So solo che Maradona è stato il più grande di tutti, e basta. Tornando a Gigi Riva, immagino forse Bobo Vieri per caratteristiche tecniche, per la potenza del sinistro, per quello che ha fatto in Nazionale, sia il giocatore che più gli si avvicina. Ma è una sensazione, non lo so.
Può esistere il rimpianto per non averlo visto in una “grande”?
Credo che Gigi Riva abbia giocato in una “grande”. Quel Cagliari poteva permettersi di trattenerlo e di circondarlo di grandi campioni. Quel Cagliari, per tornare al materialismo, era il massimo esempio di un ciclo del calcio che si specchiava nel capitalismo industriale, come oggi il Milan può esserlo di quello finanziario. Quel Cagliari era una grande squadra perché era figlio di una necessità economica, politica, industriale, quello scudetto doveva cambiare alcuni equilibri nei salotti buoni del paese, doveva coprire la devastazione umana e ambientale delle raffinerie di petrolio appena installate a pochi chilometri di distanza. E per farlo c’era bisogno di una grande squadra di calcio.
Il tuo libro è un magnifico ensemble di tanti punti di vista e di variegati dimensioni di analisi: credi che in generale lo studio che si fa del calcio sia troppo superficiale e spartana?
Non mi permetterei mai di definire in alcun modo i vari approcci al mondo del calcio. Mi limito a osservare che la vulgata attuale – fatta da un lato di gossip, titoli scandalistici e adorazione degli idoli, e dall’altro di highlights, scomposizione del flusso narrativo del gioco, inquadrature strette per filmare lo sponsor o il suo testimonial più che l’azione – sia deleteria. Lo si vede da come i quotidiani perdono copie e le televisioni abbonati. Quello che interessa a me, al di là di come lo raccontano gli altri, è però ingaggiare un confronto con il calcio come prodotto dell’industria culturale. E quindi come apparato ideologico al servizio del capitale, sin dalla sua fondazione, che non esiste alcuna età dell’oro o dell’innocenza. Per poterne raccontare gli effetti nefasti ma anche, mettendo in luce sue contraddizioni, evidenziare le possibili vie di fuga. In questo senso direi che Gigi Riva è l’hombre vertical che indica la via e traccia il percorso, sta a noi seguire il sentiero.
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