Intervista: Capitani

Dimostrando grande sensibilità e non nascondendo un naturale coinvolgimento Gianfelice Facchetti racconta e celebra le figure di alcuni dei più grandi e fieri capitani che la storia del calcio ci abbia mai regalato, passando per nomi leggendari ed altri, magari meno noti, ma ugualmente degni degli attestati di mito, esempio e bandiera come da corredamento del titolo del libro. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’idea del libro e come hai organizzato la sua realizzazione?

L’idea del libro nasce semplicemente dal desiderio di provare a raccontare di uno dei simboli più affascinanti del gioco del calcio. Se nel libro precedente “C’era una volta San Siro” ho parlato del contenitore, del luogo e di come definisca poi anche la natura delle storie ed il tipo di storia che si svolgono dentro, qui ho preso uno dei simboli più affascinanti per chi ha giocato a pallone e per chi l’ha guardato. C’era questa cosa della fascia come un qualcosa di splendente e scintillante e quindi ho cercato di provare a riscostruire la genesi, da dove è partita e come è comparsa sul braccio, visto che si dà per scontato che ci sia sempre stata; se vai a leggere la letteratura dei vari club si parla di capitano già all’inizio del 1900, anche se la fascia compare solamente nella stagione 1949/1950, dopo Superga. Ho cercato, quindi, di fare innanzitutto una ricerca storica, perché di bibliografia c’è veramente poco, quasi nulla, con delle ipotesi, qualcuna più storica e qualcuna più dettata più da suggestioni di sentimento. Poi, ovviamente, per tenere insieme tutto ho fatto una galleria di ritratti, scegliendone alcuni, consapevole del fatto che tutti non ci potessero stare tra le pagine ed in qualche modo qualcuno non avrebbe trovato posto, dichiarandolo apertamente.

Personalmente credo che la figura di Giacinto Facchetti rappresenti il vero prototipo del capitano, per valori e stile, sei d’accordo? Quello che traspariva dal campo corrispondeva alla vita di tutti i giorni?

Per me parlare di mio padre ovviamente è facile e difficile insieme, nel senso che è chiaro come io lo abbia raccontato in un libro, il primo che ho scritto nel 2011, ricostruendo un po’ di lui e di come l’ho vissuto da campione, ma da lontano, perché papà ha smesso nel 1978 ed io sono nato nel 1974 e molto di quello che so di lui l’ho appreso dalle testimonianze dei tifosi e dei giornalisti. La cosa curiosa è che se in nazionale è stato il capitano per tutta la carriera dal 1966 al 1977, poco prima del ritiro, nell’Inter invece capitano lo è stato per poco, ma nell’immaginario degli interisti è il “capitano”. In tal senso ho voluto ricordare come il capitano della Grande Inter fosse Armando Picchi e lui ha comunque incarnato per valori e per stile quelle che sono le caratteristiche che vengono additate ad un capitano autentico nel calcio. Per me la cosa bella è stato vedere e trovare che la persona che avevo come genitore a casa, nel suo modo di comportarsi e di essere padre e genitore, fosse poi lo stesso che i compagni di squadra riconoscevano, così come gli allenatori ed i tifosi. Anche nei panni successivi di dirigente, quando è arrivato ad essere anche presidente, i suoi giocatori lo riconoscevano, lo vedevano e lo rispettavano con quel tipo di caratteristiche che ho elencato.

In un calcio dove tutti parlano con l’arbitro anche con toni accesi, dove senso di appartenenza ed orgoglio sembrano valori secondari, ha ancora valore la figura del capitano? Riesce ancora ad ergersi sugli altri giocatori?

A me sembra che la figura del capitano debba avere e riscoprire un po’ il proprio valore in un calcio nel quale tutti parlano con l’arbitro, a volte malamente. Una volta i capitani si rivolgevano all’arbitro da soli e con le mani dietro la schiena e già questo dà un po’ la misura dell’atteggiamento, proprio da un aspetto fisico, corporeo e materiale. Oggi c’è invece un accerchiamento di quasi tutta la squadra a volte, una cosa abbastanza da vedere. Credo, quindi, che la figura del capitano abbia ancora valore, ma vada riscoperto, che è un po’ anche il mio obiettivo: speriamo che raccontandolo, senza illudermi che il mio libro faccia cambiare questo tipo di idea, attraverso cose che sono lontane nel tempo permettano di riscoprire cosa è stato il capitano, cosa ha rappresentato e come veniva riconosciuto ed indentificato, non solo dai tifosi della sua squadra, ma anche da quelli delle altre squadre. Ad esempio, Lautaro è la dimostrazione di come la fascia lo abbia responsabilizzato, di come lo abbia migliorato e di come lo abbia reso ancora più consapevole e maturo, quindi per qualcuno, evidentemente, questo valore esiste ancora ed allora va condiviso nella speranza che ci siano sempre più figure autorevoli in campo. Il tema è molto più ampio secondo me, essendo qua focalizzato su un campo di calcio, ma il tema della rappresentanza di chi quindi ci rappresenta è sociale e politico; visto qui è visto al microscopio in una sfera della nostra vita dove potrebbe essere trascurabile, ma il realtà il tema parla di qualcosa di più cruciale che ci riguarda tutti nella nostra vita

Fabio Capello diceva che “io non chiedo rispetto, me lo prendo”, è così anche per il capitano? La sua leadership si impone naturalmente?

La frase di Capello ha senso considerando leadership diverse: ci sono capitani di natura tecnica, per valore tecnico, perché sono più forti degli altri e quindi riescono a guadagnarsi il rispetto in quanto trascinatori anche con i loro gesti, con quello che riescono a far fare e far raggiungere alla squadra, Ci sono capitani che non hanno bisogno di parole, che riescono a diventarlo con l’esempio, parlando poco nella costanza nel diventare modelli di riferimento. Ci sono, perciò, modo diversi di interpretare lo stile di essere capitano e questo è quello che esce da tutte le storie che ho raccontato, diciamo, comunque, che tendenzialmente la leadership di un capitano, anche se poi la scelta viene fatta dall’allenatore o dalla società, dovrebbe poi imporsi naturalmente. Non è sempre stato così, negli ultimi anni ci sono stati dei casi in cui, come per esempio Icardi e Bonucci, rispettivamente all’Inter e al Milan, la leadership è arrivata dall’alto, ma non è stata riconosciuta dallo spogliatoio e questo porta ad una sorta di cortocircuito per cui tutto salta; infatti, la parabola di Icardi all’Inter si è interrotta per una serie di incomprensioni che nascevano anche da quello, così come per Bonucci.

Tale leadership sembra essere riconosciuta e rispettata anche dalla tifoseria avversarie, le quali non hanno mai infangato il loro nome o ricordo: come spieghi questo aurea di intoccabili?

Sicuramene è un aspetto che sia aspetto soprattutto riferito ad un calcio passato, perché negli ultimi anni è molto difficile che ci siano questi intoccabili, questi che riescono a strappare l’ultimo applauso anche della tifoseria avversaria. Questo perché, tendenzialmente, c’è molto individualismo e c’è sempre meno la capacità di riconoscere i meriti di chi non veste la tua maglia, di chi non porta la tua bandiera e di chi arriva da un altro pianeta sportivo se parliamo di fedi calcistiche. Se andiamo un po’ a ritroso la storia dei capitani era quella di campioni che venivano riconosciuti ed apprezzati da tutti e che ottenevano rispetto in qualsiasi stadio scendessero in campo

Alcuni capitani da te raccontati hanno rappresentato un’intera città se non un’intera regione: a tuo parere questo era più un peso o un onore? Quale qualità li rendeva particolarmente degni e all’altezza?

Sono storie diverse quelle di questi capitani ed in realtà bisognerebbe chiedere a loro se sia stato più un peso o un onore. Faccio due esempi: uno è in copertina ed è Gigi Riva, che capitano non lo è stato, ma dal mio punto di vista e penso anche di tanti altri non ne aveva bisogno, perché era più di un capitano, era un capitano senza fascia, era un capitano aggiunto anche nel Cagliari dello scudetto dove il capitano era Pierluigi Cera. Non credo che abbia sentito quel tipo di carico della città, della maglia e di una regione come un peso, anzi, ha fatto una scelta di vita che è stata eterna ed abbiamo visto cosa gli sia stato restituito nel momento dell’addio.

L’altro esempio è il capitolo dedicato a Francesco Totti che è stato il capitano di una città o di un popolo così come si sentono i romanisti. In questo caso ho avuto l’impressione non tanto che sia stato un peso, quanto però in una piazza ed in una tifoseria così calda, così affettuosa qualcosa a Totti abbia sottratto, sicuramente, però, non in termini di affetto, di stima e di gloria. Credo, però, che portare il fardello di una parte di città, dove il calcio viene vissuto come nessun posto in Italia, in cui si parla 24 sore su 24 al bar, nelle radio e sui giornali, dove ogni pretesto rischia di diventare un boomerang, sia stato per Totti faticoso da gestire, perché basandomi sulle parole di Walter Sabatini che conosce bene Roma e l’ambiente romanista e dice che bisogna provare ad immaginare cosa voglia dire essere il capitano Roma. Essere quella cosa 24 ore su 24 per tutti i giorni della tua vita credo che un pochino di mancanza di libertà la si possa avvertire insieme alla mancanza di un po’ di energia, proprio perché è una storia di identificazione totale tra il calciatore e la piazza.

Si dice sempre che la parola di un capitano facesse “cassazione” mettendo la parola fine a tutte le dispute; nell’era dei social dove tutti possono esprimersi con una cassa di risonanza esagerata tale detto è ancora valido? 

Oggi la questione della leadership all’interno di uno spogliatoio, come dicevo prima, se è imposta dall’alto e non è riconosciuta dall’ambiente, dagli altri, dal collettivo/gruppo in un momento storico in cui non sono soltanto i social (quelli sì sicuramente), è più complicata, ma è un’epoca di individualismo sfrenato in tutti gli ambiti  e quindi anche quello del calcio non è da meno; è un ambito dove per natura le persone vivono al di sopra della normalità, per quello che guadagnano e per come vivono, avendo pochi contatti con il mondo reale. Questa cosa modifica le relazioni, già le modificava anche in anni indietro, in un momento in cui c’è questa accentuazione sul “io”, una squadra non è più solo una squadra, ma è un insieme di tanti mondi che vanno messi insieme ed è più difficile mettere una parola definitiva come quella del capitano per far tacere tutti. Ci vogliono capacità diverse e sono per esempio anche oggi le qualità diverse che vengono richieste ad un allenatore ad alti livelli rispetto anche tempo; oggi si dice che l’allenatore è maggiormente un gestore, perché è come se avesse a che fare con 20/30 aziende e dove ognuno porta avanti la propria narrazione e quindi “fare il capitano” oggi implica difficoltà maggiori in questo senso.

Qual è la tua opinione sull’idea di Thiago Motta di assegnare a più giocatori la fascia di capitano a seconda del momento?

Quella di Thiago Motta mi è sembrata un’idea bella e intelligente, una novità. Dopo una fase di sperimentazione iniziale per far provare a tutti il valore della fascia anche lui è approdato ad una scelta definitiva su Ferguson, a parte l’infortunio dell’ultimo periodo. Mi sembra una strada per un gruppo giovane, dare la possibilità a tutti di provare a portare i gradi di capitano, fino a capire chi è quello che reagisce meglio a questa cosa, o chi è più all’altezza di quel ruolo; mi sembra una cosa che possa fare scuola. Anche questo è un modo intelligente per mettere in discussione il simbolo, quando una cosa si snatura perde forza, mi sembra che il passo intelligente sia quello di metterla in discussione per far capire che cosa rappresenti, che valore ha e cosa significhi. E’ un po’ quello che ho fatto io fondamentalmente con il libro, prendere un simbolo, farlo parlare, farlo passare per più storie, per vedere quelle che hanno più cose da dirci e quindi quali ci possono ispirare per ricominciare.

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