Intervista: Vincere Non E’ L’Unica Cosa Che Conta

Nel ripercorre le partite meno fortunate della storia granata Andrea Dalmasso ci regala una vera eduzione sentimentale al tifo per il Torino. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come definiresti il libro ad un potenziale lettore? É una sorte di “educazione sentimentale” al tifo granata?

Nel libro ho cercato di dare una chiave di lettura diversa rispetto a quella che tradizionalmente viene “sfruttata” nei libri che riguardano il Toro. Si parla spesso delle vittorie sul campo, dal Grande Torino al 1976, oppure delle tante tragedie extra campo. Ho provato a ripercorrere quelle volte in cui quel fato che con il Toro sembra così beffardo si è manifestato anche in campo, e di come certe sconfitte siano state per noi tifosi, paradossalmente, medaglie di cui andare fieri al pari oppure ancor di più di quanto accade quando vinciamo.

“Vincere non é l’unica cosa che conta”: come lo spiegheresti ad un bambino che si affaccia al mondo del calcio bombardato da messaggi di senso opposto?

Il titolo è chiaramente provocatorio nei confronti del celebre motto della Juventus, ma dietro c‘è molto di più. In generale nella vita non sopporto la divisione netta, che a mio modo di vedere è sempre più accentuata, tra vincenti e perdenti, senza nient’altro in mezzo. Non è vero che vincere è l’unica cosa che conta: è ovvio, conta, ma nel calcio, soprattutto per chi lo vive da tifoso, c’è molto di più, ci sono molte altre cose per cui vale la pena emozionarsi. Se alla tua squadra ti lega solo ed esclusivamente il risultato, allora rischierai di allontanartene nel momento in cui le sconfitte supereranno le vittorie. Se il legame si basa anche su altri aspetti, allora l’attaccamento sarà solido, in molti casi indistruttibile.

Ne libro prendi le distanze da vittimismo e versioni complottistiche: credi che tali comportamenti dipendendo dall’insoddisfazione o dalla necessità di avere un nemico potente per giustificarsi? 

Il vittimismo cronico è un aspetto del tifo granata in cui non mi sono mai riconosciuto e sicuramente trent’anni di risultati insoddisfacenti hanno alimentato questo comportamento. Se in alcuni casi è stato pienamente giustificato, credo che in altre circostanze venga sfruttato come alibi dai tifosi per non ammettere una sconfitta o per cercarne i responsabili in qualche fantomatico “potere forte”. Probabilmente la vicinanza con la Juventus, il “potere forte” per eccellenza del calcio italiano, ha contribuito ad accentuare questo tratto che ritrovo in tanti miei compagni di tifo.

Per la capacità di reagire ed addirittura diventare ancora più coeso dopo le sconfitte credi che il tifo del Torino rappresenti un unicum?

Non credo sia un unicum oggi, per tanti motivi che sarebbe difficile spiegare in poche righe, di certo lo è stato fino a qualche decennio fa, non solo per le sconfitte sul campo, ma anche per le tragedie fuori dal campo che hanno scandito la storia del Toro e hanno spinto i suoi tifosi a compattarsi.

Possiamo definire il Toro di Mondonico dei primi anni’90 come l’ultimo esempio del famigerato “tremendismo granata”?

 Credo non sia sbagliato dirlo. Da allora ci sono stati “sprazzi di tremendismo” in singole partite oppure in singoli calciatori, ma un Toro capace di incarnare determinate caratteristiche non c’è più stato. Quello di inizio anni ’90 è stato l’ultimo Toro tremendista.

Dalla bella esperienza in Europa League della stagione 2014/2015 credo fosse possibile costruire un ciclo di partecipazioni? La società in tal senso é stata poco lungimirante ed attenta?

Quello è stato l’unico momento della gestione Cairo in cui si è andati vicini ad aprire un ciclo vero e proprio. Sicuramente sono state fatte scelte sbagliate, anche se – almeno in quello specifico caso – non credo che la società peccò di lungimiranza. Anzi, la campagna acquisti dell’estate del 2015 fu considerata da tutti, tifosi e addetti ai lavori, una delle migliori della storia recente: a conti fatti, però, solo Belotti mantenne le promesse. In più probabilmente Ventura aveva esaurito quel che poteva dare al Toro. Sicuramente in quegli anni, col senno di poi, si poteva fare di più, sfruttando lo spazio lasciato dalle stagioni nere delle due milanesi.

Credi che i giocatori attuali percepiscano ancora l’importanza della maglia che indossano ed i valori ed essa associata? Il famigerato calcio moderno ha ovattato tale sentimento?

Onestamente non penso che certi “valori” siano molto sentiti dai calciatori di oggi. Ci sono le eccezioni, penso a Buongiorno nel Toro odierno, ma credo che un certo calcio appartenga al passato e anche noi tifosi dobbiamo accettarlo. Da un calciatore è lecito pretendere comportamenti rispettosi, professionalità e impegno, nient’altro. L’amore per la maglia ormai è qualcosa che riguarda solamente i tifosi. Non so se sia giusto o sbagliato, ma la realtà è questa.

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