Intervista: Sconfitti Di Successo

Nel libro di Stefano Nadalini si respira davvero il clima del calcio sano e semplice di una volta, provando tanta gioia, ma anche nostalgia. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’idea di combinare i propri ricordi personali alle storie dei perdenti di successo?

Volevo scrivere un libro sportivo comprensibile anche da chi non si intende di sport. A tal fine ho cercato di essere meno tecnico possibile, privilegiando l’aspetto umano dei protagonisti. Ho pensato
che i lettori potessero riconoscersi più facilmente nel mio punto di vista di semplice tifoso anziché in
quello di un addetto ai lavori. Così facendo ho mescolato le disavventure di campioni sportivi con le
mie vicissitudini giovanili, innescando ricordi che potrebbero coincidere con quelli degli appartenenti
alla mia Generazione X.

Cosa ti attira di più dei personaggi che hai raccontato nel tuo libro?

La gloria dei vinti. Il fatto che l’insuccesso non abbia scalfito il loro valore.
Addirittura in alcuni casi la sconfitta è arrivata in modo tanto particolare da rendere il ricordo dei vinti
più nitido rispetto a quello di tanti vincitori.
Questo libro è un modo per abbracciare virtualmente e affettuosamente questi campioni, dicendo a
ciascuno di loro: «Anche nel momento in cui hai perso, ho capito quanto sei stato grande e ti porterò
per sempre nel cuore».

Tra le 17 storie, ce n’é una alle quali sei maggiormente affezionato?

Personalmente sono affezionato a tutti e diciassette i protagonisti in egual maniera. La storia che ha
avuto più successo tra i miei lettori è stata quella di Astutillo Malgioglio, che sono orgoglioso di aver
fatto conoscere a tanti che la ignoravano. Bravissimo in campo, eccezionale fuori nel suo instancabile
prodigarsi in favore dei più deboli. Mi ha chiamato per ringraziarmi. Nella telefonata non ha
pronunciato una sola parola contro coloro che lo maltrattarono e ha detto che considera una fortuna
poter aiutare gli altri. Chapeau.

Il fatto di essere stati sconfitti li rende poi accessibili e perché no “umani”?

Secondo me è proprio così. Quando si è bambini o ragazzi, i confini tra sé stessi e i propri eroi tendono
a confondersi. Il mio primo eroe è stato Sandokan, un perdente, ma anche un impavido combattente
disposto a morire libero piuttosto che vivere schiavo, rialzandosi sempre dopo ogni batosta. Credo che
anche nello sport siano le delusioni più forti quelle che avvicinano i campioni ai tifosi, i primi perché si
dimostrano esseri umani, i secondi perché si dimostrano veri tifosi.

Il tono a tratti scanzonato del libro è davvero coinvolgente: è un messaggio a chi prende troppo
sul serio il calcio e lo sport in generale?

Esattamente. A una presentazione del mio libro c’era l’ex calciatore Mauro Melotti, attuale
responsabile del settore giovanile del Modena. Ha raccontato di ragazzi di dodici anni che si
presentano davanti a lui assistiti dal proprio procuratore. Ma come si fa? Le aspettative dei genitori
talvolta fagocitano quella fase di approccio allo sport che i loro figli devono vivere come un gioco. Ai
miei tempi lo sport ci doveva togliere dalla strada, oggi dovrebbe allontanare i ragazzi da cellulari e computer. Il tono scanzonato del libro ribadisce che si tratta di un gioco talvolta capace di regalare
maggior fama a personaggi dissacranti, burloni e pittoreschi rispetto agli ossessionati dal risultato.
Inoltre, quando si perde eviterei sceneggiate tragiche per rispetto a chi vive vere tragedie nella vita.

Permane leggendo il libro una certa nostalgia per la tua epoca fanciullesca ed adolescenziale, è
così? Cosa ti manca di più di quegli anni?

Mi manca il sabato del villaggio leopardiano, l’attesa trepidante che dava valore a ciò che poi si
sarebbe vissuto. La partita di pallone giocata o guardata, il ritrovo con le grandi compagnie di amici,
l’incontro con una fanciulla (quando non mi bidonava). La società odierna ha continuamente bisogno
di vendere, si moltiplicano gli eventi televisivi pensando così di moltiplicare le emozioni, i ragazzi
dialogano prevalentemente on line e il corteggiamento alle ragazze mi pare sempre più evanescente.
Noi che siamo cresciuti stando assieme fisicamente sulle panchine o nei cortili abbiamo tanti ricordi da
raccontarci. Auguro lo stesso tra tanti anni ai giovani di oggi, ma non ne sono sicuro.

Credi che la società di qualche anno fa fosse più genuina e spontanea rispetto a quella attuale?
Sotto certi punti di vista siamo regrediti
?

Purtroppo direi proprio di sì. Sono stato bambino negli anni Settanta e ragazzo negli Ottanta, in una
società che viaggiava a ritmi più umani. Il progresso tecnologico non è stato accompagnato da un
equivalente progresso umano. Ci siamo fatti sottrarre il tempo, la nostra risorsa più preziosa. Oggi
dominano l’apparenza, la frenesia, l’ostentazione di una felicità artefatta, l’esaltazione mediatica, il
condividere senza vivere. L’amicizia che ai miei tempi era una conquista oggi si concede o si toglie
con un click. In un mondo in cui l’ambizione sovrasta la solidarietà, c’è sempre meno spazio per gli
sconfitti. E sarà sempre più difficile trovare sconfitti di successo.

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