Intervista: Gianluca Vialli, L’Uomo Nell’Arena

Marco Gaetani racconta Gianluca Vialli in modo intimo e dettagliato, mettendo in luce tutte le sue qualità sia in campo che fuori. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce il progetto del libro e come hai organizzato il copioso lavoro di ricerca?

Il progetto del libro, come ho accennato nella nota introduttiva che si è resa necessaria per quello che è stato il terribile epilogo del 6 gennaio, nasce in realtà già durante la scrittura del libro su Mancini. Già in quei mesi ho costruito una sorta di archivio parallelo, visto l’ampio periodo in comune, che mi è poi tornato utile nella fase successiva di ulteriore ricerca e scrittura. Il mio lavoro di archivio penso sia abbastanza tradizionale: una volta suddivisi i capitoli a livello cronologico, procedo con la consultazione degli archivi dei principali giornali. Alcuni sono più semplici da consultare anche da casa, altri richiedono passaggi in archivi e biblioteche. Cerco di procedere con una ricerca per periodo, poi può capitare che qualcosa emerga a distanza di anni e a quel punto torno indietro ai capitoli precedenti per arricchire quello che ho già scritto.

Quanto la prematura scomparsa di Gianluca Vialli e la sua lotta contro la malattia hanno influito sul contenuto del libro?

Per strano che possa sembrare, pochissimo. Ho scritto il libro senza mai pensare a quello che potesse essere lo sviluppo della malattia, soltanto quando il lavoro era stato già consegnato e necessitava della fase conclusiva di editing hanno iniziato a circolare le notizie sul peggioramento di Gianluca. Inevitabilmente, all’interno del libro, il tema viene trattato, soprattutto nell’ultimo capitolo, ma tutto è stato scritto prima che accadesse quello che, purtroppo, è accaduto.

Quanto é stato importante il contesto di Genova per la sua maturazione calcistica e personale? Credo che l’approdo in una grande squadra si oro dopo la Cremonese avrebbe potuto essere controproducente?

Importante, ma non fondamentale. Credo che Vialli avesse già una struttura mentale sufficientemente solida per mettersi alla prova in una big: certo, passare dalla Serie B a una grande storica del calcio italiano non sarebbe stato semplice e forse un passaggio intermedio avrebbe fatto comunque comodo, ma più che altro a livello tecnico, per un mero discorso di abitudine al calcio di vertice.

Dal punto di vista calcistico la sua carriera sembra essere orientata a vendicare le sconfitte subite in un determinata fase della stessa, sei d’accordo?

Vialli, più di altri giocatori, ha vissuto la sconfitta come un incubo: con questo non intendo dire che esistono calciatori felici di perdere, ma che i segni lasciati da una sconfitta possono essere più o meno rilevanti a seconda della personalità. Vialli era un perfezionista che odiava perdere e, paradossalmente, la gioia per una vittoria era di entità minore rispetto al dolore per una sconfitta. Non parlerei di vendetta, quanto di voglia di riscatto e di fuga dal concetto stesso di sconfitta.

A tuo parere con la nazionale italiana ha pareggiato i conti dal punto di vista delle gioie e dei dolori? L’Europeo vinto 2 anni fa ha colmato le delusioni del 1990 e le mancate convocazioni successive?

Temo di no. Vialli è stato elemento certamente imprescindibile per il gruppo che ha vinto l’Europeo nel 2021, ma vincere da calciatore (o da allenatore, come nel caso di Mancini) credo abbia un sapore diverso. La carriera di Vialli in Nazionale si è interrotta sul più bello, negli anni della piena maturità calcistica, e questo è davvero un peccato gigantesco.

La coppia offensiva Vialli-Mancini si é dimostrata una delle migliori della storia del nostro calcio: dei due chi ha beneficiato più del talento dell’altro?

Si pone sempre l’accento sulla capacità di Mancini di mandare in gol i centravanti con cui ha giocato, perché lo ha fatto obiettivamente con chiunque. Però la tendenza di Vialli al sacrificio, a spendersi per i compagni di squadra, consentiva anche di coprire i lunghi momenti di pausa che Mancini si prendeva nel corso di una partita. Possiamo definirlo uno scambio equo.

Tecnicamente e caratterialmente preferivi il Vialli della Sampdoria o quello della Juventus?

Lo strapotere atletico di Vialli in alcune stagioni alla Sampdoria credo sia stato inarrivabile. Il Vialli arrivato alla Juventus era un giocatore certamente più maturo, ma non possiamo dimenticare che le prime due stagioni sono state enormemente sofferte. L’immagine del Gianluca bianconero è consolidata soprattutto grazie all’arrivo di Lippi in panchina, che gli ha saputo ritagliare un ruolo diverso. E se a Genova era stato uno dei tanti leader, a Torino, nel biennio di Lippi, si è preso la squadra sulle spalle in maniera impressionante, come punto di riferimento incrollabile.

Il suo rapporto con i media é stato a volte tormentato, credi che in parte lo abbia usato per fine personali, quantomeno per mandare velati messaggi?

Penso ci sia stato uno spartiacque evidentissimo, che è Italia ’90: fino a quel momento, Vialli si era mostrato e raccontato con fin troppa limpidezza per un giocatore del suo spessore. Dopo il Mondiale, cambia tutto e inizia a concedere solo quello che vuole concedere, e non a tutti. I messaggi di Vialli, nella sua seconda fase da calciatore, non sono mai velati ma sempre tonanti: al massimo si concedeva ancora qualche piccolo vezzo che dava da scrivere ai giornalisti, ma quello era l’unico divertissement rimasto.

Che eredità morale ci lascia Gianluca Vialli?

Un’eredità a mio modo di vedere enorme. Il modo in cui ha raccontato la sua malattia è quasi senza precedenti in un mondo, come quello del calcio, profondamente machista. Non ha avuto vergogna di mostrarsi fragile, ha fatto capire a chi si trovava nella sua stessa condizione che non deve esistere vergogna per una lacrima mostrata, che avere paura non solo è consentito ma è inevitabile. Ha trasmesso un messaggio di importanza capitale: quella con la malattia non può essere una battaglia, perché è per natura impari, e la retorica del “vince solo chi è più forte” non deve essere l’unica possibile.

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