Intervista: InterOttanta

Davide Steccanella propone un bel viaggio negli anni’80 nelle pieghe delle vicende nerazzurre e dell’Italia sociale e culturale del periodo. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Da quanto tempo era in cantiere il progetto e quanto é durata la sua realizzazione?

Il merito è tutto di Nicola Erba, nerazzurro sfegatato come me, che insisteva per fare insieme qualcosa sull’Inter dei “nostri tempi”, poi un giorno siamo andati con l’editore Caizzi a un incontro a Lodi Vecchio per la presentazione di un libro di Bordon, e nel rivedere Beccalossi, Marini e altri eroi della mia adolescenza rimasti grandi amici e sempre disponibili con tutti i tifosi, ho capito che dovevamo raccontare quel calcio così diverso da oggi e in poco tempo è nato “Interottanta”. 

Come spiegheresti a chi non li ha vissuti la bellezza ed il fascino del calcio anni’80?

Credo che le bellissime immagini del libro e i tanti racconti inediti, non solo di ex giocatori ma anche di illustri tifosi, parlino da soli. Era un calcio a misura d’uomo che tutte le domeniche univa milioni di italiani davanti a una radio e inoltre il passaggio dalla fine degli anni Settanta all’inizio dei Novanta è stato un momento fondamentale di cambiamenti epocali non solo nel calcio ma direi in tutta la nostra vita.

Dal punto di vista sociale che ricordo hai di quegli anni e quali valori e concetti sono andati persi con il passare del tempo?

E’ la mia storia e di quelli nati in quel periodo, quindi potrei non essere obiettivo nel dire che sono stati anni speciali, però è oggettivo che a Milano allora succedeva ogni giorno qualcosa di rilevante e che si condivideva tutto, mentre i Duemila mi sembrano più che altro contrassegnati da uno sfrenato individualismo. Ricordo che quando arrivavi nel piazzale di San Siro la prima cosa che vedevi era una gigantesca fiumana di “portoghesi” che scavalcavano per entrare gratis. So che non è una cosa lecita, però tutti vedevano a nessuno sarebbe venuto in mente di denunciarli, perché erano tifosi come noi, e in quel momento contava una cosa sola: l’Inter, che, come cantava Venditti (anche se lui si riferiva alla Roma), ci faceva sentire “uniti anche se non ci conosciamo”, senza differenze culturali o sociali.    

Al netto dei guadagni il fatto di avere uno squadra composta per 9/11 da italiani, buona parte proveniente dal settore giovanile, rendeva la squadra più vicina ai tifosi e quindi più amata?

Non credo che fosse quella la ragione, i tre tedeschi del Trap non erano meno amati dai tifosi, e se debbo pensare a un idolo di quegli anni direi Rummenigge, mentre il capitano più amato è stato Zanetti che era argentino. Penso che il segreto fosse che tutti, italiani o meno, sembravano più umani e accessibili, e credo che la gran parte di loro in effetti lo fosse. E questa empatia a un tifoso arriva dritta al cuore più ancora del singolo gesto atletico.    

Credi che le vittorie e le delusioni degli anni’80 rappresentino una sorta di metafora per i tifosi nerazzurri?

Tenere all’Inter, come spiego nel libro, non è come tifare per una qualsiasi altra squadra di calcio, significa soffrire e magari vincere uno scudetto ogni 10 anni, però nessun’altra ti sa altrettanto esaltare anche grazie a quel suo tocco di imprevedibile “pazzia”, e se la vita è una continua capriola, come ha detto Michele Serra, allora posso dirti che si, l’Inter, e soprattutto quella degli anni Ottanta, è una metafora della vita. Devo dire che nonostante tutto e dopo circa 50 anni sono strafelice di essere interista, è un amore che non si è mai interrotto, come mi ha detto il Becca nell’intervista che mi ha concesso e che si legge all’inizio del libro.

C’è poi rammarico per le eliminazioni falla coppe europee o per i piazzamenti in campionato che avrebbero potuto essere primi posti?

Un tifoso vorrebbe vincere sempre, nel calcio non esiste il “vinca il migliore”, per cui rammarichi tanti, soprattutto se ripenso al campionato 1990/91, alle  tante sconfitte di coppa contro la bestia nera Real Madrid o a certi scudetti buttati via all’ultimo come quello del 2002 o “rubatici” come quello del 1998, però restiamo l’unica squadra italiana a non essere mai scesa in B né per demeriti né per latrocini, e pur essendo nati parecchi anni dopo i cugini abbiamo lo stesso numero di tricolori sul petto. Certo, la Juve ha vinto di più, ma per me juventino è solo un’offesa.

C’è un giocatore che può essere citato come simbolo dell’Inter di quel periodo?

Per me lo sono stati Beccalossi prima e Berti poi, perché entrambi, seppure molto diversi non solo tecnicamente, ma anche caratterialmente, sembravano essere i primi tifosi in campo più che dei professionisti strapagati. Però anche Spillo, Bergomi, Zenga, Ferri o Baresi sono stati dei simboli. Direi che l’Inter ha sempre avuto dei giocatori bandiera che non si riescono ad immaginare con una maglia diversa da quella nerazzurra, da Meazza a Lorenzi e da Mazzola, Corso e Boninsegna che vennero prima, ai vari Zanetti, Materazzi & c. che sono arrivati dopo.       

Quanto sono importanti le bellissime foto dell’archivio Ravezzani per impreziosire la narrazione?

Come ho detto all’inizio fondamentali, perché non si limitano a fotografare una fase di gioco, sono proprio l’immagine di quegli anni, intensi e ricchissimi di stimoli, erano gli anni di Bob Marley e Bruce Springsteen a San Siro, del Plastic, di Drive In e di tanto altro, colore e fantasia, così come lo sono i tanti racconti dei personaggi rintracciati da Nicola. Interottanta è stato un gioco di squadra e visto che è un libro che parla di calcio, mi pare che questa sia la miglior prerogativa di partenza. Poi ovviamente, e come sempre, il giudizio finale spetterà al lettore.

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