
Con un grande lavoro di ricerca e grande competenza Carlo Pizzigoni e Gianfilippo Riontino raccolgono le varie dichiarazioni ed opinioni tecnico/tattiche dei protagonisti di 5 edizioni del Mondiale, in un libro di grande interesse. Ne abbiamo parlato con Carlo Pizzigoni.
Come nasce il progetto e quali finalità vi siete posti nella sua realizzazione?
Ci sono stati diversi step. Io onestamente diverse volte mi è capitato di pensare che tante situazioni di calcio, tante conferenze stampa, tante cose interessanti degli allenatori fossero andare perse, perché una delle poche memorie che ci sono adesso è internet; cioè, se non c’è su internet, sembra che non ci sia da nessuna parte. Nessuno è più abituato a fare ricerche su archivi, eccetera. Soprattutto non è mai facile, perché poi per una determinata cosa uno deve fare delle altre ricerche. Quindi ce l’avevo in testa da un po’ di tempo un lavoro sugli archivi e per restituire le parole del calcio. Quando ho incontrato Gianfilippo Riondino e ho visto il suo archivio subito ho pensato ad una cosa di questo genere, cioè la possibilità di far rivivere certe parole e di far rivivere certi concetti. Così è nato un progetto che secondo me è unico, nel senso che queste cose che abbiamo raccolto in questo primo volume, questi ricordi e questi virgolettati che sono realmente virgolettati, cioè sono quello che hanno detto i protagonisti dei Mondiali, sarebbe stato impossibile riportarli senza il suo archivio. Arrivare ad avere a disposizione non solo i quattro quotidiani italiani più il Guerin Sportivo, ma anche , sostanzialmente, El Grafico, Placar e Diario AS riviste e altri periodici e quotidiani da tutto il mondo, dai quali abbiamo attinto di più, sarebbe stato davvero impossibile con altre fonti. Quindi siamo partiti ed abbiamo cominciato con questo tipo di lavoro, una collana che si chiamerà “Gli Storici” e farà rivivere le parole dei grandi tecnici, per adesso legate ai Mondiali, ma poi andrà a parlare delle grandi scuole dei grandi allenatori nel mondo.
Quanto é durato e come avete organizzato il copioso lavoro di ricerca?
Il lavoro è durato tanto, perché bisognava individuare bene le fonti e qui Gianfilippo è stato fondamentale, ovviamente. E poi, ovviamente, andare a spulciare, Mondiale per Mondiale, le diverse annate, quasi tutte, sostanzialmente. Poi, ovviamente, con particolare attenzione due mesi prima del Mondiale e due mesi dopo il Mondiale e, naturalmente, il periodo del Mondiale. Di tutta quella fascia lì, ovviamente, non abbiamo perso una riga ed in generale durante l’anno, soprattutto per i periodici, siamo andati a leggere tutto quello che c’era scritto, quindi molto, anche perché considerato una piccola parte in italiano il resto era in lingue straniere, quindi ci siamo fatti una bella immersione. E’ stato un lavoro faticoso, ma dall’altra parte fantastico, perché significava rientrare in quegli anni, è stato un godimento assoluto ed ancora mi capita adesso, che abbiamo preso una pausa prima di fare il secondo volume, alla sera di leggere dei giornali vecchi per trovare altri spunti. E devo dire che di spunti ce ne sono tantissimi.
Tra le 5 edizioni da voi considerate quale ha rappresentato il vero punto di rottura dal punto di vista tattico?
Guarda non c’è una svolta totale, noi partiamo dal 1974 perché probabilmente la svolta è stata quella per entrare un po’ nella modernità del calcio. Però è un flusso, un flusso continuo ed il Mondiale dà sempre delle direzioni, poi sono da una parte, ovviamente, motivate dai cambi delle regole, dai cambi della preparazione fisica, dai cambi, banalmente, del pallone. Insomma ci sono tanti cambiamenti che seguono l’evoluzione del calcio, quindi valgono per registrare quello che sta cambiando. Anche il modo di esprimersi degli allenatori, il modo di parlare di calcio, come cambia, questo è un’altra cosa molto interessante, un esercizio che abbiamo fatto sul linguaggio. Dall’altra parte c’è stata una grande scoperta, perché la verità è che a noi ci hanno raccontato le storie che non sempre corrispondono a quello che realmente hanno detto gli allenatori e quindi questa è anche un’opera meritoria, adesso mi autoincenso anche se di solito non lo faccio mai, perché questi concetti ritrovano quello che esattamente gli allenatori pensavano; quello che abbiamo riportato noi è esattamente quello e tante volte noi abbiamo solamente messo delle etichette e sono etichette giornalistiche, ma il nostro obiettivo era quello di far parlare chi era protagonista in campo. Questa ricerca credo che sia al limite del rivoluzionario.
A vostro parere qual è stata la principale variabile tattica apportata da Bearzot per prendere le distanze dal sempre criticato catenaccio?
Faccio seguito alla risposta precedente, perché il caso di Bearzot è una caso di scuola. Bearzot è stato uno degli eroi del nostro calcio, perché quel Mondiale fu qualcosa di clamoroso e, ovviamente, la storia come ci è stata riportata, anche per volere e necessità, dallo stesso Beazot, che era una grande appassionato di storia calcistica partiva dalla famosa frase di Brera nella “vittoria del santo catenaccio”. In realtà è una diminutio questa, cioè non ci fu non solo quello, non ci fu solo organizzazione difensiva, per chiamarla come si dovrebbe etichettare oggi quel tipo di passaggio. Ci fu molto altro ed è secondo me interessante il fatto che Bearzot sottolinei, e questo l’ho ripreso più volte nel libro, il fatto che l’identità di squadra sia sempre stata la stessa, ma ci fu uno scatto mentale, uno sblocco per così dire nella partita con l’Argentina, ma al di là di qualche piccola modifica fatta, come Oriali al posto di Marini ed altri piccoli cambiamenti per infortuni o piccoli accorgimenti tattici, l’unità di squadra ci fu dalla prima partita. Bearzot, infatti, sottolinea come dalla prima partita con la Polonia di Vigo già si vedeva come la squadra stesse funzionando, ma non trovava il gol e questo ha un po’ appesantito psicologicamente la squadra, che poi, liberandosi, nelle celeberrime partite con Argentina e Brasile, ha poi volato. Questo per dire che Bearzot aveva già creato e trovato un’identità di squadra fin dalle prima battute.
Il Brasile del 1982 ha pagato solo la presunzione o c’erano delle problematiche tattiche? Ad esempio c’è chi ritiene fosse troppo scoperto a destra, causando squilibri nell’intera squadra…
Il Brasile del 1982 è una squadra irripetibile e secondo me se rigiocano la partita con l’Italia probabilmente 90 volte su 100 la vince, quindi tante volte il fascino del Mondiale è anche questo, che in un partita ti giochi tutto e in quella partita ci posso essere due errori che cambiano la storia anche del calcio. Però rimane un Brasile molto iconico, perché non sempre, anzi non è mai vero questo cosa che si dice che l’importante è vincere così si rimane nella storia, il Brasile come la grande Olanda o come la grande Ungheria rimane nella storia nonostante non sia nemmeno arrivato in semifinale causa la formula che c’era all’epoca. Anche dal punto di vista dei brasiliani leggendo Placar, che è un po’ la bibbia della coscienza critica giornalistica brasiliana, si nota come quella rimane una squadra, sì con rammarico per non aver vinto, nel cuore di tutti ed è stato un punto di riferimento; anche Tite lo ha riconosciuto, perché per quelli della sua generazione, che hanno vissuto osservando e vivendo quel Brasile, non possono non consideralo un riferimento, come lo è stato e lo sarà per sempre. Per tutto il Brasile, al di là che non abbia vinto, rimarrà comunque quella squadra molto più del Brasile del 1994. A me piace più sottolineare il fatto di come Telè Santana fosse moderno anche nell’applicazione di certe situazioni e nello studio di certe situazioni, nonché nella proposta calcistica e non in quello che banalmente viene ricordato soprattutto da una parte di giornalismo, che ormai è finito in Italia e che racconta di questo tecnico un po’ sbadato che voleva solo giocare all’offensiva. Questo libro toglie tutti questi pregiudizi molto banali che con il tempo si sono creati intorno a questa squadra mitologica, ma in generale intorno al calcio. Ne abbiamo parlato più volte, anche con te, il Brasile non c’entra con il “Joga Bonito”, queste sono etichette: In questo volume si vede nettamente come la scuola brasiliana sia in continua evoluzione ed in continuo cambiamento e da tanti punti di vista dimostra di essere molto attenta a quello che avviene nel calcio a come cambia il calcio. Praticamente sono stati i primi, non solo a mettere i preparatori atletici nel calcio, ma anche a utilizzarli con una visione calcistica, tanto è vero che Carlos Alberto Pareira, che è un preparatore o Coutinho, altro preparatore, diventano poi CT della nazionale. Vuol dire che già all’epoca il preparatore atletico non era il professore di ginnastica, ma era dentro il pensiero calcistico.
Quale é stato il limite della futuribile URSS del 1986?
Quello è un passaggio molto bello e molto importante, mi è piaciuto molto, perché quel lavoro è alla base del cambiamento del calcio tedesco. Lo indica Rangnick nei giorni moderni, ma lo studio di quella nazionale clamorosa, quella del 1986, è alla base anche di tante altre situazioni che si sono riviste nella scuola che noi ora definiamo tedesca. La cosa importante, secondo me e che si evince da quello che abbiamo sottolineato nel libro, è come realmente fu l’impatto di quel tipo di calcio. Quindi abbiamo ad esempio l’analisi di Kovács, un uomo che ha allenato il grande Ajax che evidenzia la carica rivoluzionaria di quella squadra. Quindi credo che attorno all’Unione Sovietica del 1986 c’è una sorta di meraviglia e di attenzione dei tanti allenatori che celebrano il fatto che ebbe una carica unica e un certo tipo di approccio al cambiamento particolare, tanto da essere fonte di ispirazione per un uomo come Rangnick, ma in generali per un tipo di calcio che si gioca anche oggi.
Nella storica anarchia tattica della Jugoslavia riuscire a tracciare un collegamento tra quella del 1974 e quella del 1990?
Guarda, questo è un libro abbastanza snello, non volevo una di quelle opere noiose e piene di situazioni che appesantiscono troppo. E’ un’opera che deve arrivare a più gente possibile, quindi ha dentro di sé un concetto di sintesi, non si poteva approfondire qualunque scuola. Ma questo lo faremo con gli altri libri che seguiranno della collana, negli anni futuri, per approfondire ancora di più questi concetti, non legandoli solo al Mondiale, ma evidenziando ad esempio come la scuola jugoslava abbia prodotto una serie di tecnici, figli al loro volta di un’altra scuola, quella danubiana, con dei principi molto interessanti, d’avanguardia calcistica Trovare una linea di collegamento unica tra il 1974 ed il 1990 si può fare, ma diventa davvero molto rigida come situazione. Certamente la produzione di talento e la costruzione di calciatori di qualità è sempre stata molto sviluppata, su questo non ci sono dubbi, ma dall’altra parte l’organizzazione tattica ha subito tante variazioni e secondo me nel 1990 abbiamo già una squadra più conservatrice sotto un certo punto di vista, molto legata a concetti abbastanza datati, però con un’idea della gestione del gruppo in qualche modo legata ad una psicologia già moderna. Se vogliamo la Serbia di Piksi Stojković al Mondiale del Qatar si può legare a quel lavoro per esempio, però ne approfondiremo ancora di più quando negli “Storici” faremo la scuola jugoslava, cosa che non avverrà immediatamente, perché ci sono scuola più interessanti dal punto di vista calcistico, che hanno maggior presa sul pubblico. Ma arriveremo anche lì.
Possiamo definire l’edizione del 1990 come l’ultima nella quale il ruolo di libero ha avuta una valenza, almeno al giudicare da chi é arrivato fino in fondo e dall’impostazione tattica di uno sfortunato Brasile?
Il discorso del libero e i discorsi della marcatura a uomo e della marcatura a zona sono importanti, ma sono più giornalistici. La proposta calcistica è una proposta di insieme, non è legata esclusivamente ad un certo tipo di strategia, che poi non è neanche una strategia difensiva, ma una parte della strategia difensiva. Ti dico che come utilizzi il libero e dire che giochi con il libero è già sbagliato, perché dipende da come lo usi. Quindi anche queste cose qua, ripeto, sono semplificazioni, come quando oggi diciamo che una squadra gioca con il 3-4-3 vuol dire tutto e non vuol dire nulla, perché è la base id partenza, poi lo sviluppo del 3-4-3 può avere anche solo un approccio difensivo o superoffensivo, con l’utilizzo che hai dei braccetti e l’utilizzo che puoi aver degli esterni… sono un po’ etichette questo cose, quindi è un altro motivo per cui se noi prendiamo esattamente quello che dicono gli allenatori riconosciamo quello che è realmente l’essenza del calcio e ci allontaniamo ancora di più della etichette. Questo è un altro dei motivi per cui mi piaceva proporre al pubblico questo libro
Siete partiti dal 1974 nella vostra analisi, come mai non avete considerato le edizioni precedenti?
Gianfilippo da supercultore delle edizioni anche precedenti non ti nascondo che vorrebbe anche fare queste ultime, ci sono anche tanti appassionati che glielo hanno chiesto. Ovviamente parlare di calcio dagli anni’70 in avanti è riconoscere un linguaggio che possiamo dire che sia il nostro, andare più indietro significa fare molta più fatica. Si potrebbe fare un’analisi tattica di quello che è avvenuto, ma non è la mia idea, cioè io non voglio riprendere, con concetti che noi adesso conosciamo, ad andare a fare l’analisi tattica di squadre degli anni’30, 40 e 50, io voglio che sia storicizzato questo tipo di ricerca. Io voglio che quelli che all’epoca vivevano il calcio sappiano raccontarmelo il calcio, non voglio mettermi io al di sopra di loro e dire l’Uruguay giocava così, quell’altra giocava così, non è l’obiettivo di questo libro. L’obiettivo di questo libro è far parlare quelli che in quel momento vivevano quel tipo di calcio e farcelo raccontare dai protagonisti e questo secondo me è la differenza tra questo libro e tanti altri, che potranno anche venire, ma è molto importante questa opera, perché ti dà la possibilità di conoscere quello che realmente pensavano all’epoca, non dopo, con concetti successivi e con un linguaggio moderno. Io voglio farmi raccontare da loro, da chi c’era cos’era per loro calcio, che cos’era per loro l’analisi tattica delle partite. Abbiamo fatto il 1974 perché, proprio per questo motivo, è difficile trovare dichiarazioni di questo tipo anche solo negli anni’50, figurati negli anni’30. Sarebbe però interessante anche fare quell’altro tipo di lavoro, questo non lo nego, ma tutto non si può fare. Del 1974 abbiamo anche una cesura importante, da lì in avanti comincia ad esserci la Coppa del Mondo che noi conosciamo, chiudendosi la Rimet, Io avevo pensato anche al 1970, perché era importante quel tipo di lavoro che si era fatto per esempio in Brasile, però secondo me il 1974 è giusto, perché anche dal punto di vista della riconoscibilità del lettore è l’anno dell’Olanda, quindi in qualche modo è legata una visione nuova del calcio moderna e quindi di un cambiamento insomma, una rivoluzione su come intendere il calcio.
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