Intervista: Giocare Come Dio Comanda. Enzo Bearzot, Ritratto Intimo

Molto interessante e coinvolgente il ritratto che Giacomo Mocetti ci regala di Enzo Bearzot, in un libro che scorre via anche tra le tante testimonianze di chi gli è stato vicino. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’idea del libro e quanto ci é voluto per completarlo?

L’idea del libro – come spiego nell’introduzione, perché ho ritenuto fosse importante giocare a carte scoperte con i lettori – nasce per motivi famigliari. Enzo Bearzot era infatti il nonno di mia moglie (e di conseguenza il bisnonno dei miei figli). Ascoltando i racconti di mia moglie sul Bearzot privato, mi sono accorto che in realtà dell’allenatore che ha guidato l’Italia a vincere il Mondiale del 1982 si conosceva poco, perché per quarant’anni si sono sempre dette e scritte su di lui le solite quattro cose. Pertanto è nato in me il desiderio di raccontare chi fosse il vero Bearzot. Il lavoro è durato circa un anno: ho individuato gli interlocutori che a mio modo di vedere andavano incontrati o sentiti, mi sono fatto raccontare il loro Bearzot e infine ho lavorato sui loro ricordi e i loro aneddoti.

Dal libro emerge come Bearzot raramente parlasse di calcio in famiglia: vedeva il suo compito come un lavoro a tutti gli effetti?

Diciamo che ci teneva molto a separare la famiglia dal calcio. Probabilmente perché conosceva le “trappole” del mondo del calcio, gli effetti che la pressione mediatica può avere sulle persone, e non voleva che in alcun modo i suoi cari venissero toccati da polemiche, critiche o quant’altro. Ma quello di Bearzot era un ruolo talmente importante, che inevitabilmente gli echi di ciò che faceva arrivavano anche in famiglia, come spiega la figlia Cinzia. Aggiungo che sempre la figlia racconta che gli correggeva i rapporti tecnici che faceva sulle squadre che andava a visionare… dunque da questo punto di vista coinvolgeva la famiglia nel suo lavoro.

A tuo parere era più un fine psicologo o un attento tattico nelle vesti di allenatore?

Penso che come tutti gli allenatori vincenti avesse la capacità di toccare le corde giuste sia da un punto di vista mentale sia da un punto di vista tattico. Non era un rivoluzionario, tatticamente, ma era molto aggiornato. Per oltre un decennio ha girato l’Europa guardando partite, e in questo modo si è fatto un’idea di tutte le principali tendenze che si stavano sviluppando. Dopodiché ha provato a sintetizzare alcune novità (soprattutto di stampo olandese) con la tradizionale identità calcistica italiana. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico, non credo avesse chissà quali velleità: semplicemente, era uno estremamente onesto con i suoi giocatori, diceva sempre le cose come stavano, convinto che dire la verità fosse la maniera migliore di avere giocatori fedeli alla causa.

Nel suo modo di gestire i giocatori quanto c’era della sua esperienza di calciatore?

Sicuramente essere stato un giocatore lo ha aiutato, credo che qualsiasi allenatore che sia stato un giocatore abbia questo vantaggio nella gestione del gruppo. Così come credo che aver lavorato con Nereo Rocco sia stata un’esperienza molto preziosa. Allo stesso tempo penso che gli anni al fianco di Ferruccio Valcareggi, dove ha potuto osservare cosa funzionava e cosa no nello spogliatoio azzurro, gli siano risultati molto utili una volta che si è trovato lui nel ruolo di Commissario Tecnico.

Dove nasce la fiducia incondizionata in Paolo Rossi? Solamente dal Mondiale del 1978 oppure il Vecio vedeva in lui qualcosa di speciale?

La sua fiducia nasceva innanzitutto da motivi tecnici. Bearzot riteneva Paolo Rossi un attaccante con caratteristiche uniche e inimitabili, e lo riteneva un tassello fondamentale nella sua idea di calcio e di squadra. Per questo fu disposto ad aspettarlo così a lungo, perché sapeva che Rossi gli avrebbe potuto dare qualcosa che nessun altro era in grado di dare. Poi certo, c’era l’aspetto umano, e una stima tra i due che andava oltre il campo di calcio.

Nel 1986 é stato criticato per le sue scelte volte a confermare buona parte del gruppo di 4 anni prima: credi ci fosse davvero di meglio da selezionare?

Sono passati quasi 40 anni, ma è complicato rispondere a questa domanda. Cerco di spiegarmi. Bearzot stesso ammise, anni dopo, che aveva sbagliato a puntare su determinati giocatori facendosi fregare dalla gratitudine. Però se poi si va a vedere la formazione titolare che perse gli ottavi di finale contro la Francia, solo 4 giocatori erano stati titolari anche nella finale del 1982. E se prendiamo in considerazione la totalità della rosa dei convocati, su 22 c’erano solamente 10 campioni del mondo. Quindi, in realtà, un ricambio anche piuttosto corposo c’era stato. A questo va aggiunto – come sottolineato da Bergomi nel libro – che quell’Italia passò il girone pareggiando con l’Argentina di Maradona futura campione del mondo, e venne eliminata da una signora squadra come la Francia di Platini. Insomma, non sono convinto che Bearzot fece le scelte sbagliate, tendo a credere che semplicemente gli azzurri trovarono sulla loro strada una squadra più forte.

Come spieghi l’etichetta di allenatore difensivista che spesso gli viene attribuita, nonostante i fatti smentiscano tale caratteristica?

È difficile capire perché nascano certe etichette, ed è ancora più difficile togliersele. Forse Bearzot è considerato difensivista per quella sua celebre frase “primo: non prenderle”, ma è una frase che come dici tu non rispecchia il credo calcistico bearzottiano. Il Vecio come la stragrande maggioranza degli allenatori cercava l’equilibrio, quello sì. Ma amava altresì andare all’attacco, in questo senso era un italiano atipico, un po’ olandesizzato. Purtroppo però nella narrazione calcistica italiana si tende spesso a procedere per luoghi comuni, senza andare a vedere davvero come sono andate le cose. E qui torno a quello che dicevo all’inizio, sul fatto che su Bearzot da quarant’anni si dicono le stesse cose. Andate a rivedervi tutta l’azione che porta al gol di Tardelli, e ditemi se Bearzot era un difensivista.

Che eredità morale ci ha lasciato Enzo Bearzot?

Le cose nel calcio come nella vita, in campo come fuori, vanno fatte per bene, con coerenza ed onestà. Questo paga, sempre.

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