
Valerio Moggia mette in evidenza le storture e le tragiche conseguenze che l’assegnazione al Qatar del Mondiale del 2022 ha causato, in un’analisi cruda e dettagliata. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Quali finalità ti sei posto nella realizzazione del tuo bel libro?
“La Coppa del Morto” è nato inizialmente come un’esigenza personale di mettere assieme tante informazioni e fonti raccolte negli ultimi anni sui problemi attorno a Qatar 2022. Volevo mettere ordine nella mia testa e guardare tutto quello che si sapeva sui retroscena più controversi dei Mondiali. In Italia se n’era parlato molto poco, fino a quel momento, ma vedevo che, nel mio piccolo, quando ne scrivevo sui social di Pallonate in Faccia c’era sempre un buon interesse sul tema, quindi evidentemente la gente voleva saperne di più.
Come hai organizzato il lavoro di ricerca? Hai seguito pari passo l’evoluzione dell’assegnazione del Mondiale al Qatar o c’è stata una data o un avvenimento che ti ha spinto a documentarti?
Più o meno mi ero sempre un po’ interessato della questione del Mondiale e dei diritti umani in Qatar, ma è stato tra il 2018 e il 2019 che ho iniziato a seguire approfonditamente gli sviluppi e le varie inchieste della stampa straniera (britannica, in particolare). Il report del Guardian di febbraio 2021, quello che ha indicato 6.500 lavoratori migranti morti, è stato l’evento che mi ha dato un po’ la sveglia (e non solo a me, credo). Da lì ho iniziato a raccogliere fonti in maniera più sistematica, ricondividere notizie e inchieste sui social, e gradualmente ho ampliato la mia rete di fonti sul tema. Se all’inizio era prevalentemente il Guardian, poi ho iniziato a includere specifici giornalisti (penso a Tariq Panja del New York Times) o testate meno note come i norvegesi di Josimar Football. Quando ho deciso di realizzare un libro, quindi, avevo già una conoscenza approfondita di cosa era stato scritto almeno nei tre o quattro anni precedenti. A quel punto il lavoro di ricerca ha riguardato soprattutto tutto quanto era successo in precedenza, e che a suo tempo avevo sottovalutato. Fortunatamente, stiamo parlando di articoli di testate giornalistiche o report delle ong, che sono tutti ancora disponibili online. Per cui il lavoro di ricerca è stato relativamente comodo.
Nel libro parti di un sistema capitalistico alla mercé dei soldi provenienti dal Medio Oriente.Tale sistema é quindi già fallito o quanto é vicino al fallimento ideologico e materiale?
Forse suonerò un pessimista, ma credo che questo sistema non sia affatto fallito, anzi che questi eventi testimonino come funzioni ancora. Semmai è un sistema che si sta scontrando con contraddizioni sempre più evidenti: il profitto, oggi, giustifica anche le peggiori violazioni dei diritti umani, che magari fino a qualche tempo fa avrebbero causato maggiore imbarazzo. Tutto ciò però non è che un’evoluzione del sistema capitalista: se la cosa che più conta è il profitto, è normale che prima o poi si arrivi a farlo prevalere anche sui diritti umani e i valori etici. La vera questione è quanto siamo disposti – come cittadini, come opinione pubblica – ad accettare questa contraddizione, divenuta ormai drammaticamente palese. Parlo dei Mondiali, ma in realtà anche altri aspetti della società e della politica rientrano sempre più spesso in questo discorso.
All’inizio del torneo Infantino ha dichiarato:” Oggi mi sento del Qatar, arabo, africano, gay, migrante e disabile”. Cosa pensi di tale dichiarazione?
Penso che ci sia poco da commentare. Qualche giorno fa, la FIFA faceva i complimenti a Jakub Jankto per il suo coraggioso coming out, dicendo che “il calcio è per tutti”, pochi mesi dopo aver ospitato i Mondiali in Qatar e snobbato il tema dei diritti LGBTQ+ (sui quali Doha non ha fatto negli anni alcuna concessione, mentre almeno sui diritti dei lavoratori qualcosa, per quanto minimo, ha dovuto cedere). Il giorno dopo quelle dichiarazioni, sempre la FIFA ha assegnato il prossimo Mondiale per Club all’Arabia Saudita, che è il “prossimo” Qatar. È abbastanza ironico che, al momento della sua elezione a presidente della FIFA, Infantino fosse indicato come un progressista, una sorta di Obama del pallone; gli ultimi mesi in particolare, tra dichiarazioni e comportamenti, è sembrato essere piuttosto Trump.
É possibile tracciare un parallelo tra il Mondiale del 1978 e quello del 2022? Il livello di omertà, al netto dei differenti sistemi di divulgazione, é stato lo stesso?
Sicuramente Argentina 1978 ha rappresentato il primo caso in cui, davanti a ben note e documentate violazioni dei diritti umani e anche una campagna di boicottaggio, la FIFA decise di tirare dritto. Ma è ovvio che ci sono alcune differenze significative: nel 1978, la FIFA si ritrovò con la dittatura in Argentina e i desaparecidos a Mondiale da tempo già assegnato, mentre in Qatar è stata una scelta pienamente consapevole. E rispetto ad allora la presa di posizione di tifosi e giocatori, per quanto incapace di fermare il torneo, è stato notevolmente molto più evidente, creando una spaccatura nel sistema del calcio globale. All’epoca, la FIFA sostanzialmente fece finta di nulla; nel 2022, Infantino è dovuto intervenire a difendere a spada tratta il regime di Doha, con dichiarazioni che hanno reso abbastanza evidente la malafede della sua organizzazione. Poi aggiungerei che dopo 1978 il calcio si allontanò dai regimi dittatoriali per molti anni, mentre invece mi pare che Qatar 2022 (che già segue Russia 2018) sia più che altro un via libera.
Credi che una potenziale boicottaggio da parte di una nazionale o di un calciatore famoso avrebbe potuto creare un effetto domino o sarebbe stata una sorte di mosca bianca?
Difficile a dirsi. Forse una nazionale intera sì, avrebbe potuto cambiare qualcosa (non dimentichiamoci che la minaccia di boicottaggio di Inghilterra e Galles ha spinto UEFA e FIFA a escludere la Russia dalle qualificazioni, pochi mesi prima del Mondiale). Però sottolineo anche che di questi temi si è parlato unicamente nell’Europa occidentale, in Australia e in Nord America: Asia, Africa e America Latina sono rimaste del tutto insensibili – a livello di tifoseria, media e giocatori – alle violazioni del Qatar. Questo secondo me è l’altro grande problema: a una grossa parte del mondo (quella non occidentale), la questione non è interessata.
Quando si parla di Qatar si é solito porre l’accento su strategie quali lo “Sport Washing” e il “Soft Power”, é corretto o la strategia emiratina é più complessa?
Il termine sportwashing lo ha inventato nel 2015 l’attivista Rebecca Vincent per denunciare l’organizzazione dei Giochi Europei in Azerbaijan: l’esperienza del Qatar è sicuramente figlia di quella azera, ma è evidente che siamo ormai su tutto un altro livello. Doha, così come l’Arabia Saudita che vuole ereditarne il ruolo, ha un piano che non riguarda solo il “ripulirsi la faccia” attraverso lo sport: eventi come il Mondiale sono soprattutto uno modo per sviluppare una rete di investimenti finanziari e infrastrutturali, attraverso i quali le élite dei paesi arabi vogliono garantirsi prosperità a lungo termine, rendendosi indipendenti dalle risorse fossili. Siamo davanti a operazioni che hanno a che fare a pieno titolo con la geopolitica.
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