
Con grande stile, ricercatezza ed orgoglio Domenico Mungo esprime tutte le emozioni ed i ricordi in quello che sembra un ideale testamento di un tifoso. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Nel complimentarmi per il libro ti chiedo come è nata l’idea di mettere nero su bianco la tua passione per la Fiorentina e le tue esperienze nel complesso contesto ultras.
Ti ringrazio. Non è una novità per me. Da quando ho iniziato a destreggiarmi nel mondo della scrittura, nei miei romanzi e nei miei racconti ho sempre creato situazioni e personaggi borderline, in linea con quelle che erano le mie esperienze dirette. Dagli esordi con Sensomutanti nel 2003 a Cani Sciolti del 2008 fino a più recenti sperimentazioni quali @Ultras – Parole e suoni dalle curve, un ibrido tra saggistica e raccolta antologica di racconti ultras inediti da tutta Italia che ho curato insieme a Giuseppe Ranieri, ho voluto sottolineare l’esistenza di una nicchia italiana del racconto ultras che fosse antitetico all’epica hooligans dei romanzi d’Oltremanica inficiati secondo me, soprattutto negli epigoni di Welsh e King, di una costruzione fiction da mainstream della letteratura da scaffale. Ma al di là di questo ritengo che raccontare il calcio e attraverso il calcio e dal
calcio farsi raccontare sia coerente alla letteratura internazionale del Novecento, da Pasolini a Camus, da Galeano ai bestsellers britannici, da Saba a Bianciardi. Nulla di nuovo all’orizzonte, nulla di nuovo dietro la nuca. Solo un’ispirazione in grado di farti rimanere in bilico tra il reale e l’onirico. Con la stessa sospensione di fiato con cui attendi di verificare se il pallone si insaccherà all’incrocio dei pali o finirà mesto sul fondo.
Nel libro utilizzi ricercati riferimenti letterari anche per raccontare e perorare certo atteggiamenti ed avvenimenti nel mondo del tifo organizzato: cosa risponderesti a chi lo definirebbe un legame forzato?
Che avrebbe dovuto muovere la stessa osservazione al grande Nanni Balestrini quando con Furiosi a metà degli anni Novanta agli ultras dedicò addirittura un poema epico sotto forma di flusso di coscienza joyciano che fu per me e altri una sorta di folgorazione iniziatica di come avremmo voluto raccontare un mondo criptico, controverso, dissonante, letale e vitale al contempo come quello dei giovani demoni delle città, gli ultras.
Oppure basterebbe in maniera poco originale ma esauriente citare Pasolini e la sua esegesi del rapporto fra calcio e letteratura. Pasolini affermava nei suoi scritti che «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».
È possibile equiparare uno sport a un rituale sacro? È giusto attribuire al calcio un valore al di fuori del rettangolo di gioco? Sì, secondo Pasolini non vi era alcun dubbio: il calcio non poteva (e non doveva) essere inteso come un semplice gioco, ma era corretto conferirgli una funzione extra sportiva. Più di una pièce teatrale, meglio di una celebrazione religiosa, una partita di pallone diventa appunto ‘sacra’ per quello che riesce a trasmettere al suo pubblico.
Il calcio, quindi, è una vera e propria lingua, caratterizzata da codici e da registri.
Tecnicamente si possono distinguere un calcio in prosa e un calcio poetico, a seconda di come esso viene declinato sul campo di gioco. Pasolini citava come esempi i campioni del tempo, da Bulgarelli a Riva, da Corso a Rivera, differenziandone le attitudini tattiche e le caratteristiche tecniche. Indubbiamente, il calcio degli anni sessanta e settanta era molto diverso da quello odierno, sotto tanti punti di vista. La distinzione tra prosa e poesia è però sempre riscontrabile, in quanto essa prescinde dall’evoluzione della tattica, dal cambiamento dei moduli di gioco e dal susseguirsi dei calciatori scesi in campo.
Pertanto ritengo tutt’altro che ardita, posticcia, esasperata e fuori luogo la visione del calcio e dei suoi corollari fisiologici collaterali, come ad esempio la narrativa ultras, attraverso la letteratura. Anzi rientra negli argini di una tradizione letteraria e culturale sia autoctona (vedi P.P.P. e altri) sia globale.
Guardandoti alle spalle hai mai avuto pentimenti per la tua scelta di vita? Hai mai pensato “oggi sono andato oltre?”
Mai. Piuttosto è dall’osservazione critica di ciò che è diventato il mondo ultras contemporaneo – ovvero quello somministrato, vissuto e caleidoscopizzato dai social e dall’informazione mainstream – che nascono in me riflessioni e rimpianti.
L’intersezione di visioni, rapporti, discrasie e derive talvolta si scontrano con la mia formazione e la militanza che praticai in passato. Valori e circostanze diverse, segnale evidente di un fluire del tempo sociale e culturale che modifica etica e modalità,
spontaneismo e premeditazione, ideologie che si scalzano dai gradoni a seconda del corrispettivo indirizzo del resto della società civile. Sebbene il mondo ultras non abbia mai vissuto, se non nella sua fase remota ed originaria – come nella fondazione di qualunque mito – una purezza etica e di ingaggio e questo ne ha sempre definito la sua natura bipolare e schizofrenica. Oggi assistiamo a Sovraesposizioni estetiche e di comunicazione che riempiono e sostituiscono il vuoto interiore che attanaglia alcune realtà ultras dominanti.
Questo sì che mi fa affermare che “… si è andati oltre…”.
La deriva commerciale e meno spontanea del concetto di ultras quanto possono essere connessi alla grande fruibilità del calcio degli ultimi anni?
È una conseguenza, sebbene persistano sacche di sostanziale spontaneità e aggregazione pura soprattutto in contesti territoriali minori. Parliamo di deriva in chiave commerciale ed istituzionale di realtà che hanno bacini d’utenza e visibilità metropolitana e continentale.
Altrove le contraddizioni rimangono coerenti alla stessa duttilità del movimento ultras di cui abbiamo già diffusamente parlato.
Io ho frequentato il contesto delle curve per poco tempo più o meno vent’anni fa ed ho avuto il rigetto per cosa stava diventando il tifo organizzato: hai provato anche tu la stessa cosa? Riesci ad identificare un punto di rottura con il passato?
La cronologia di questa trasformazione ci consentirebbe di tracciare una mappa della coeva trasformazione della società circostante, dei linguaggi di autorappresentazione, dei valori diffusi, del ricambio generazionale, delle priorità di visibilità o invisibilità delle azioni, delle pratiche e delle modalità di essere ultras oggi. Simbolicamente si potrebbe citare il 2007. Annus horribilis che si apre col caso Raciti e termina con l’omicidio Sandri. La specularità dei due eventi riflette altresì due punti di rottura: il riconoscere che ciò che ha a che fare il mondo ultras ha conseguenze anche nella percezione sociale e pertanto legislativo del vivere una certa dimensione, e in seconda istanza il ruolo che il mondo ultras vuole a quel punto dare di se stesso al mondo esterno; si passa dal Daspo alla tessera del tifoso con disinvoltura: sorvegliare e punire con leggi e modalità ad hoc da esportare poi nel caso al resto delle devianze o delle situazioni antisistemiche al di là dello stadio.
D’altro canto episodi di omicidi, agguati e azioni sovraesposte costellano circa quarant’anni di storia ultras e ne definiscono la mutazione in una definitiva logica tribale che innesca meccanismi primordiali applicati al presente.
Se dovessi scegliere a quale periodo della Fiorentina ti senti più legato per quanto espresso in campo?
La Fiorentina è un’idea che prescinde dal campo. In ogni caso dovendo citare un periodo, Ovviamente direi che la Fiorentina di Batistuta e Rui Costa era quella che conciliava tecnica, grinta, coraggio e risultati e quindi si confaceva all’idea di calcio che la mia squadra doveva esprimere. Sebbene abbia raccolto infinitamente meno di quanto meritasse a livello di palmares.
Al tempo stesso ti chiedo se come più rammarico per lo scudetto sfumato in modo contestato del 1982 e lo per le vicende del 1999?
Il 1982 è una ferita che non si rimarginerà mai. Un furto. Un’ingiustizia, una congiura. Quello del 1999 un atto di superficialità e scarsa professionalità.
l 1982 è un marchio indelebile di ingiustizia subita, l’altra un semplice rimpianto.
Cosa diresti ad un adolescente sul punto di decidere di fare del tifo una ragione di vita? Sarebbero più i consigli esperti o le messe in guardia nei confronti dei pericoli?
Entrambi.
Mi hanno molto colpito le parole spontanee di un tuo giovane studente: è da considerare une mosca bianca o una valida speranza per la salvaguardia di certi valori?
Esistono i giovani. Da ascoltare ed indirizzare, da coinvolgere e responsabilizzare. Da lasciare liberi di sbagliare e da proteggere da noi stessi che abbiamo lasciato loro in eredità i nostri errori.
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