
Gianfranco Bellotto si racconta con Carlo Cruccu in un libro nel quale emergono le sue peculiarità caratteriali e le sue qualità nelle vesti di valido centrocampista e poi apprezzato e forse sottovalutato allenatore. Ne abbiamo parlato con Carlo Cruccu.
L’etichetta di uomo e allenatore d’altri tempi, da considerare nella sua accezione più positiva, é calzante o limitativa per Gianfranco Bellotto?
Calzante, se decidiamo di scegliere un calcio più passionale, più vicino al contatto con i tifosi e anche – visto dalla nostra parte – con la stampa. Il calcio di Gianfranco Bellotto, pur nelle sfaccettature più recenti, resta più accessibile, meno urlato ed esasperato e questo a mio parere lo rende più gradevole. Detto questo, va riconosciuto che l’evoluzione tecnologica ha cambiato il ruolo e il lavoro dell’allenatore, ed è naturale che chi ha costruito il proprio credo professionale con i sistemi di qualche anno fa ora si senta catalogato come tecnico “d’altri tempi” in una visione limitativa.
A tuo parere sono più le soddisfazioni da giocatore o quelle da allenatore?
Sicuramente le soddisfazioni da giocatore. “Bellotto? Quello dell’Ascoli dei record” è stata la prima reazione di tanti interlocutori incontrati per la costruzione del libro. L’Ascoli del presidente Rozzi, del tecnico Mimmo Renna, tifosi ascolani hanno confessato di avere la pelle d’oca al solo ricordo di quell’impresa, dei gol del “baffo” padovano. E anche l’esperienza genovese ha lasciato un segno nei tifosi blucerchiati. Le maggiori difficoltà imposte invece dalla vita di allenatore – fatta da enormi pressioni e bizze dei presidenti -hanno imposto spesso percorsi in salita, affrontati con impegno e professionalità nn sempre riconosciuti.
Nel calcio di adesso Bellotto sarebbe stato il classico centrocampista “box to box”; credi che tale giudizio sia appropriato?
Box to box”? Penso di sì, se consideriamo da una parte la capacità di essere un incontrista e dall’altra la capacità di “inserirsi”(come va di moda dire adesso) negli spazi dalla trequarti in avanti. L’evoluzione del suo ruolo può essere vista, con i dovuti adeguamenti del calcio che cambia, all’atteggiamento tecnico e agonistico di Barella.
La serie A l’ha quasi sempre ignorato come allenatore: conta così tanto avere buona stampa ed un agente? Quanto ha pagato la nomea della prima domanda in chiave negativa?
L’esperienza di Bellotto in Serie A si limita a mezza stagione a Modena, in una situazione critica conclusa con una retrocessione caratterizzata da uno strascico di polemiche anche extra tecniche. La colpa di Bellotto, se di colpa si può parlare, sta nella scarsa capacità di farsi una vetrina, magari facendo il commentatore nei momenti di mancanza di una panchina. “Mi piace parlare con i fatti, non con le chiacchiere”, ha spesso ripetuto. Una frase che merita l’applauso ma che lo ha spinto ai margini di una categoria nella quale anche apparire è fondamentale. Già, discutibile ma fondamentale.
Le squadre di Bellotto giocavano un calcio semplice, ma piacevole, si difendevano bene, ma avevano tanti giocatori di classe: dove si é vista la sua versione migliore?
Classe e tecnica sono importanti ma non producono risultati se non si abbinano a cultura del lavoro e sano agonismo. Il merito di Bellotto sta nell’aver miscelato bene questi ingredienti. Da allenatore ha centrato varie promozioni ma soprattutto importanti salvezze. Da cronista che per oltre 30 anni ha raccontato le vicende del Venezia posso garantire che qui in laguna, chiamato in tre situazioni diverse, Bellotto ha fatto un ottimo lavoro.
Gianfranco Bellotto si darebbe un “bell’otto” per la sua carriera?
No, ma solo per l’umiltà e la ricerca della perfezione che fanno parte del suo modo di vivere. Tuttavia penso che dentro di sé, giustamente, sappia di meritarselo. Anche se non lo dirà mai.
Un personaggio come Bellotto quanto manca al calcio italiano così gravato da problemi?
Gianfranco Bellotto manca al calcio italiano, ma il calcio italiano non sene accorge, troppo impegnato a girare nel suo frullatore impazzito, che impedisce di prendere coscienza dei problemi che spuntano giorno dopo giorno. Lasciatemi dire, in conclusione, che i tecnici della sua generazione mancano anche alla mia generazione di giornalisti: una intervista a cuore aperto, , sfogliando l’album dei ricordi e cercando aneddoti inediti, viene molto meglio tra le mura di casa, in relax, per concludersi davanti ad un vassoio di frittura mista – come è successo negli incontri per costruire “Vi do un Bellotto” – piuttosto che con domande robotizzate e filtrate da uffici stampa con funzioni limitative, se non di censura.
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