Intervista: Messi

Un libro davvero notevole che ripercorre la vita e la carriera di Messi attraverso un’analisi attenta ed impreziosita da un stile e da accostamenti di alto livello. Ne abbiam approfondito i contenuti con l’autore.

Nel complimentarmi per il bel libro to chiedo come sia nata l’idea è da quanto era in cantiere il progetto?

Non riesco mai a definire lucidamente da quanto abbia in cantiere (e quanto permanga in cantiere) un libro, forse perché semplicemente a un certo punto certe particelle si cristallizzano, entrano in contatto tra loro, si fondono e prendono corpo, o vita. Ogni pensiero quotidiano è un progetto di libro? Può darsi. Scrivo di Sudamerica da un decennio, di calcio argentino, nella fattispecie, e di cultura argentina. Ho sempre più o meno girato intorno al tema Messi, senza mai prenderlo di petto, senza mai affrontarlo: se avessi dovuto pensare a un diez di cui scrivere, probabilmente non sarebbe stato, a primo acchito, lui. A dare la spinta definitiva credo sia stato il meccanismo innescato dal libro su Cristiano Ronaldo: una volta allontanatomi dalla comfort zone sarebbe stato ingeneroso non chiudere il karma scrivendo dell’altra metà della mela platonica. Su un altro aspetto, invece, che è quanto sia stato un cantiere, posso risponderti più precisamente: due anni, quasi precisi. Cioè il tempo che è intercorso tra l’uscita di Ronaldo e la clamorosa estate 2021, in cui la carriera di Messi ha subito così tanti stravolgimenti da diventare intellegibile.

In lui convivono una forza di volontà fortissima ed atteggiamento per certo versi infantili: come ha bilanciato queste opposte caratteristiche?

Non capisco bene a cosa ti riferisci parlando di atteggiamenti infantili: forse quella volontà di averla sempre vinta? Se così fosse: quale grande campione non ha quella competitività? Convengo con te che il senso di primazia fagocitante, per molti versi, risulti puerile. Ma paradossalmente, più è infantile, fanciullesco, più risulta coriaceo, non trovi?

É esagerato dire che abbia sofferto e soffra le spiccate personalità e l’ego di certi compagni? 

Non credo soffra molto l’ego di nessuno, che non sia se stesso. Ha, dalla sua, o dovrei meglio dire ha avuto per larghi tratti della sua carriera, uno spiccato senso del proprio peso nel mondo, sull’altare del quale, spesso, gli interessi più grandi della società con cui si è identificato in maniera quasi totale, cioè il Barça, si sono visti costretti ad abdicare, a essere sacrificati. Ma credo profondamente che l’egocentrismo sia stato il suo più grande fardello indotto: quando ha sentito di poter confidare sul supporto di qualcun altro (la meravigliosa squadra che gli ha cucito attorno Guardiola, l’Argentina di Scaloni), ha semplicemente razionalizzato il suo ruolo centrale, smettendo di avvertirlo come una condanna. È stato un tiranno? Angel Cappa, quando gliel’ho chiesto, mi ha risposto: “I leader non devono mai diventare tiranni, perché altrimenti si trasformano in teppisti, e nessuno segue i teppisti, in realtà”.

Dopo l’ultima vittoria del 2015 sembra il che la Champions League sia diventata un’ossessione è una chimera. Credi voglia vincerne una per dimostrare di essere al di sopra del Guardiola o del Luis Enrique di turno? 

Hai presente le dipendenze? Ecco: non c’è niente di razionale, nelle dipendenze. Penso che Leo sia championsleague addicted, cioè che abbia una vera – come si dice a Roma – ròta. Non mi pare voglia dimostrare niente a nessuno, tantomeno la propria superiorità. Semplicemente, non sa stare senza vincere. Senza conquistare il trofeo di massimo livello per club. 

C’è stato un periodo nel quale é stato “mes que un club”? La sua aurea ha offuscato quella del Barcellona?

Non direi che ha offuscato l’aura del Barcellona, anzi per certi versi l’ha rinfocolata. Certo, ha innescato un meccanismo perverso, soprattutto economico, che è poi stata l’esatta controparte di ciò che succedeva in campo: il Barcellona dipendeva da lui. Non dai suoi capricci, ma dal suo rendimento. Non dalle sue volontà, ma dalla sua capacità d’influenza. Mai negativa, mai velenosa, mai orientata a distruggere, ovviamente. Ma nondimeno controcorrente rispetto a ciò che spesso la dirigenza pensava, credeva opportuno, realizzava.

Molti sostengono che Messi abbia usufruito in larga parte della classe e della tecnica di Iniesta e Xavi: perché non si considera l’importanza che lui ha invece avuto per far migliorare i due compagni?

Questo è un buon tema di discussione. E forse, in parte, la risposta l’ho già data sopra: in contesti così massivamente esplosivi, luminescenti, è difficile capire chi stia oscurando chi. Probabilmente, nessuno oscura nessuno, e anzi il processo di crescita, di sviluppo, di miglioramento è condiviso. Nessuno dei tre sarebbe stato chi è diventato senza l’humus, e il giochino si fa pericoloso, perché dovremmo tirare in ballo anche Guardiola, e si scatenerebbe la brutta catena di Sant’Antonio alla ricerca del primato. E poi non sono per niente certo che non si sia approfondita, snocciolata, l’importanza che Messi ha avuto nello sviluppo del tipo di gioco di Iniesta e Xavi. Il fatto poi che i due, anche senza Messi, siano stati capaci di portare la Spagna a un Mondiale, forse, ne ha sminuito la portata.

Seguendolo da sempre mi sono accorto di come il suo modo di giocare sia sia evoluto ed implementato: lo preferivi magnifico solitaria o eccelso costruttore di gioco come é adesso, al netto della diverse condizioni atletiche?

 È evidente che la maturazione porta sempre, connaturata in sé, una ridefinizione della propria atleticità. Certo, nei primi anni era inafferrabile, esplosivo, un turbobolide futurista. Se ti dicessi che preferivo di più quella versione frenetica, funambolica, probabilmente ti direi una scemenza. Il ruolo che ha saputo ritagliarsi negli anni della maturità, forse ti direi dal Mondiale del 2014 in poi, per quanto desti compassione, mi sembra quello che meglio lo definisce, o quanto meno che più lo riappacifica con una tradizione calcistica come quella argentina.

A tuo parere sarebbe dovuto andare via prima dal Barcellona? 

Molti dei momenti più indimenticabili che vivono due amanti in crisi si concentrano proprio nel momento in cui la crisi stessa è all’acme: gli strappi, i tentativi per convincersi che può esistere un finale diverso, sono sempre i più disperati, e forse i più estremi. Ma, di pari passo, spesso, i più rancorosi. Il punto, qua, è che nessuno ha colpe, e tutti l’hanno: sarebbe dovuto andar via? Potrei ribaltare la domanda: il Barça lo avrebbe dovuto lasciar andare prima? Se vuoi la mia, sarei stato molto più felice se non fosse finita mai, sarebbe stata l’esatta sovrapposizione, osmotica e sempiterna, tra due delle più importanti narrazioni calcistiche dell’ultimo ventennio. Avrei preferito che la fregata fosse rimasta in porto per sempre. Ma forse non è per stare in porto che son fatte le fregate, come si dice, no?

Nel caso il Mondiale in Qatar non si concludesse con la vittoria dell’Argentina la figura di Messi come fuoriclasse ne uscirebbe offuscata? Ha poi così bisogno di questa consacrazione?

Non ha bisogno di questa consacrazione, ovviamente. E probabilmente se le cose andassero per il verso sbagliato ne soffrirebbe meno, ne avvertirebbe meno la responsabilità assoluta. Però diciamocelo: quanto sarebbe grigio se questa narrazione non trovasse il giusto compimento? Il concetto di giustizia, e di giustezza, viene spesso sollevato: se lo merita, più di chiunque altro. Perché se lo merita il tifoso argentino. E perché l’inedita sovrapposizione tra Messi e il tifoso argentino, in fin dei conti, proprio in quanto inedita, è una di quelle congiunture astrali che si verificano una volta al secolo. Messi che alza la Coppa del Mondo è il maracanazo al contrario, è l’Italia che la riceve sotto gli occhi di Cossiga, è Videla con la faccia contrita sepolto da una valanga di coriandoli oranje.  A te piacerebbe l’idea di non essere testimone della storia che si compie, che si fa carne, e verbo?

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