Intervista: Calcio Di Stato

Davvero interessante e ricca di dettagli l’analisi che Giorgio Coluccia e Federico Giustini fanno del fenomeno dello Sportwashing, prendendo in considerazione 4 paesi interessati da questo discusso fenomeno. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Come nasce e come l’avete sviluppato in un mondo il vostro interesse per il tema dello Sportwashing?

Siamo rimasti colpiti da come il calcio e in generale tutto il mondo dello sport abbiano ormai virato in modo deciso verso un nuovo epicentro, tra sconfinate risorse economiche e delicati equilibri geopolitici.  Attorno a questa rivoluzione ruotano interessi di parte, grandi eventi internazionali, intrecci geopolitici e ovviamente ingenti quantità di denaro. Il momento decisivo per noi è stato vedere che anche la Supercoppa di Spagna – abbracciando per giunta un cambio di format – si sarebbe disputata in Arabia Saudita a gennaio 2020. Sulle sfarzose insegne di queste realtà, ci sono le cosiddette Vision ossia ambiziosi documenti programmatici finalizzati a emancipare le rispettive realtà dalla dipendenza dalle risorse naturali – come petrolio e gas – per dare vita a una diversificazione economica e a una maggiore apertura verso le nuove generazioni dettata da turismo, intrattenimento e nuovi stili di vita.

Quanto sono sottili e instabili i rapporti e le tensioni tra le quattro nazioni da voi analizzate? C’è il rischio di un’esasperazione del clima politico e sociale? 

Il fuoco cova sotto la cenere soprattutto in Bahrain, dove i regnanti sunniti sono in netta minoranza rispetto alla maggioranza sciita della popolazione. Con Hamad Al-Khalifa al potere l’area è stata fortemente destabilizzata dalle proteste iniziate nel 2011, ispirate alla Primavera araba e che avevano messo nel mirino proprio i regnanti. La repressione nel sangue attuata in quel contesto è stata denunciata dalle maggiori Ong internazionali, che hanno portato alla luce le tremende violenze perpetrate dalle forze governative. A Piazza della Perla, uno dei posti più caldi delle rivolte nella capitale, è stato distrutto il monumento principale di quel luogo, con il chiaro intento di cancellare ogni traccia delle proteste e siglare la vittoria del potere sui ribelli. Non è detto che un giorno il fuoco torni ad ardere, destabilizzando un Paese in cui lo sportwashing ha trovato sfogo soprattutto con la Formula Uno e il ciclismo.

Le cifre in merito ai morti in Qatar per la creazione delle infrastrutture per il Mondiale sono agghiaccianti: quali sono le principali cause sull’omertà che regna sull’argomento?

Di fronte ai pochi sforzi compiuti dalla Fifa per intervenire in modo drastico, sono state soprattutto le organizzazioni umanitarie – come Amnesty International o Human Rights Watch – a scoperchiare una realtà terribile che si è alimentata dopo l’assegnazione del Mondiale al Qatar nel dicembre 2010. Tantissime vicende legate ai decessi sono state insabbiate o derubricate a cause naturali, anche perché nel 2012 il Qatar ha approvato la Law N° 2 on Autopsy of Human Bodies, che «vieta l’autopsia o l’esame post mortem, fatta salva la necessità di determinare se la morte sia stata causata da un atto criminale, se il defunto abbia sofferto di malattia prima della morte o per scopi puramente educativi». Sul tema rendono bene l’idea le parole di Aidan McQuade, ex direttore dell’organizzazione britannica Anti-Slavery International: ‘Queste condizioni di lavoro e il numero sorprendente di morti vanno oltre l’idea del lavoro forzato. Si torna alla schiavitù di un tempo in cui gli esseri umani venivano trattati come oggetti. Non c’è più il rischio che il Mondiale possa essere costruito sul lavoro forzato: è già accaduto. Duecento anni fa, le persone usavano la frusta per tenere gli schiavi al loro posto, oggi usano la confisca dei documenti di identità per impedire la fuga o trattengono gli stipendi come ripicca, per scongiurare qualsiasi tipo di reazione da parte dei lavoratori.

In termini di diritti umani quale paese ci risulta più aperto o più incline a garantirli in maniera più continua?

Ci sono delle minime aperture da parte di tutti, ma la strada da compiere per arrivare a livelli accettabili è ancora tanta. Sul tema abbiamo interpellato Cinzia Bianco, ricercatrice ed esperta della regione del Golfo Persico per l’European Council on Foreign Relations, che ci ha fatto notare come vadano fatte delle distinzioni a proposito del dibattito interno sulla possibilità di liberalizzare e riformare. Bisogna aspettarsi migliorie nel tempo sui diritti delle donne, sui diritti dei lavoratori migranti, sulla libertà religiosa, ma non sul piano di diritti politici, libertà d’opinione e di parola. Inoltre, va ricordato che sugli stati del Golfo non bisogna generalizzare perché si tratta di sei realtà ben distinte. 

Lo Sportwashing può portare miglioramenti nel livello qualitativo delle rappresentative nazionali e delle relative squadre di club?

Almeno in Qatar si è innescato un percorso virtuoso sul piano sportivo a partire dalla costruzione dell’Aspire Academy. Non a caso nel 2019 la nazionale qatariota si è laureata, con pieno merito, campione d’Asia. E parliamo di un Paese con una storia calcistica praticamente inesistente fino a quel momento. Quindi risponderemmo di sì, anche riguardo ai club, considerando che in Qatar, nell’Al-Sadd, Xavi ha iniziato con buoni risultati la sua carriera da allenatore, ed è poi diventato il tecnico del Barcellona. Gli altri, come spieghiamo nel libro, stanno provando a tenere il passo. Indubbiamente provare a costruire squadre più forti, nazionali più competitive, e più in generale dare un impulso al movimento sportivo può solo che portare vantaggi alla reputazione di questi Paesi .

Come vi ponete nei confronti delle proposta di disputare il Mondiale ogni 2 anni? La rapida rotazione dei continenti ospitanti darebbe ulteriore spinta al fenomeno dello Sportwashing

Sicuramente organizzare il torneo calcistico iridato più di frequente darebbe un assist importante a quelle realtà interessate a sfruttare lo sport per mostrarsi migliore e ad acquisire prestigio e maggiore peso specifico nel mondo del calcio. Per esempio, il Mondiale d’inverno potrebbe non essere più un’eccezione. E poi in un cassetto giace ancora la proposta di un Mondiale per Club allargato. E la torta da spartire sarebbe ancora più ampia.

A vostro parere le criticità sulle reperibilità delle fonti energetiche può rafforzare il ruolo internazionale dei paesi da voi analizzati? 

Rispetto agli undici milioni di barili di petrolio prodotti al giorno dai sauditi, la vera fortuna qatariota è stata l’enorme riserva di gas naturale – chiamata North Field – non soggetta a estinzione e scoperta al largo delle proprie coste nel 1971. Inoltre, il Qatar in data 1 gennaio 2019 si è ritirato dall’Opec, l’organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio che l’aveva accolto nel 1961. È stato così il primo Paese arabo a ritirarsi, sia in virtù del forte scontro con l’Arabia Saudita (leader dell’Opec), sia perché produce solo il 2 per cento delle riserve globali di petrolio. In quella occasione Saad Sherida Al-Kaabi, il ministro dell’Energia qatariota, ha confermato che i qatarioti si concentreranno sulla produzione di gas naturale liquefatto, essendo il primo esportatore al mondo, e allo stesso tempo di voler puntare anche sul più grande centro al mondo per la produzione di etilene, il principale composto chimico usato nella produzione di plastiche, resine, adesivi e prodotti sintetici.

Quali saranno gli scenari futuri delle realtà da voi descritte? Come si comporteranno i suddetti paesi?

Lo sportwashing vive e continuerà a vivere grazie alle medesime dinamiche che si ripetono a tutte le latitudini del nostro mondo. Si tratta di una leva su cui fanno forza i regimi autoritari per avere influenza a livello internazionale, ma anche per distrarre, per focalizzare l’attenzione sui grandi eventi e non su quanto accade tutti i giorni nei propri Paesi. Il trend degli ultimi anni dimostra quanto sia diffuso e radicato questo fenomeno.

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