Intervista: Scottish Pride

Luca Di Lullo e Marco Scialanga ci conducono in un bel viaggio nella storia del calcio scozzese, fornendo a riguardo tanti dettagli e permettendo di valutare l’evoluzione e i cambiamenti dello stesso. Ne abbiamo parlato con gli autori.

Come nasce la vostra passione per il calcio scozzese e cosa rende unico tale contesto?

La passione per la Scozia e per il suo football nasce per entrambi in età giovanile. Una passione innanzitutto legata agli anni gloriosi della scuola calcistica scozzese in ambito internazionale perfettamente incarnata dalle gesta della “nazionale” ai Campionati del Mondo del 1974 e del 1978 e dai suoi Club più blasonati nelle Coppe Europee. Era il periodo in cui pescare nel sorteggio di una qualsiasi competizione la Scozia o un Club scozzese era fonte di giusta preoccupazione anche per i migliori “squadroni” europei ed è innegabile che quel tipo di calcio dal discreto livello tecnico e dal grande furore agonistico abbia lasciato il segno in due appassionati, come lo siamo noi, del football britannico più in
generale. Aggiungiamoci poi, l’enorme fascino che molte “maglie” dell’universo calcistico scozzese ebbero sui giovani appassionati che avevano finalmente la possibilità di vedere a colori, sia in Tv sia in foto, gli iconici cerchi bianco-verdi del Celtic, le “sleaves” dell’Hibernian FC, lo sfolgorante “tangerine” del Dundee UTD o semplicemente l’elegante “blu notte” dela tartan Army. Infine, crediamo di essere stati spinti ad amare il football scozzese, anche oltre modo probabilmente, perché ritenuto troppo spesso e a torto dai media, il figlio minore (talvolta addirittura illegittimo) di quello inglese.

Credete che il contribuito della scuola scozzese alla nascita ed evoluzione del calcio (passing game) sia stata sottovalutata?

Assolutamente sì, soprattutto in due distinte fasi della storia del calcio scozzese. In primis va sottolineato il ruolo avuto, agli albori del football, dal Queen’s Park, la prima squadra non inglese a disputare una finale della FA Cup e, soprattutto, la prima squadra ad adottare un sistema di gioco più avvolgente, più ragionato, fatto di una fitta rete di passaggi dal centro del campo verso le fasce laterali allo scopo di liberare al tiro gli attaccanti senza far ricorso allo storico, e non sempre produttivo “kick and run” tipico del calcio della terra d’Albione. Un’impostazione questa che non soltanto cambiò nell’immediato il modo di giocare di molte squadre, ma che ispirò anche molti club inglesi che per migliorarsi si affidarono nei primi anni del professionismo proprio ad “allenatori” scozzesi per rendere sempre più forti le loro squadre. In una fase più tardiva, poi, è altrettanto indubbio – e non va assolutamente dimenticato – il ruolo avuto da formazioni “storiche” come il Celtic di Jock Stein, campione d’Europa nel 1967, ovvero l’Aberdeen di Alex Ferguson che riuscirono ad amalgamare uno stile di gioco molto più simile a quello
del calcio latino con quello fisico tipico del calcio britannico, dimostrando che anche chi aveva piedi buoni poteva correre e dannarsi su e giù per il campo come un semplice gregario, anticipando di gran lunga il cosiddetto “calcio-moderno”.

Dal libro emerge il grande orgoglio di tifare per una squadra, al netto delle vittorie e della serie di appartenenza: quanto il calcio è un mezzo per evadere da una realtà dura in Scozia?

Questa, se vogliamo dirla tutta, è una caratteristica più generale del calcio britannico che, nel caso dei club scozzesi, risulta essere ancora più accentuata dal fatto che la middle e la lower class sono maggiormente rappresentate nell’ambito delle tifoserie scozzesi, soprattutto nelle grandi città dove esiste una demarcazione più netta tra i colletti bianchi e il popolo (Glasgow ne è un esempio piuttosto limpido e non riguarda solo Celtic e Rangers ma anche realtà più piccole come, ad esempio, quella del Clyde). Proprio per questo il calcio diventa un modo per evadere dalla triste realtà quotidiana sfociando, talvolta, anche in qualcosa di eccessivo e trasgressivo come spesso accaduto e come raccontiamo nelle pagine dedicate, ad esempio, all’Old Firm di Glasgow.

L’atavica contrapposizione religiosa di Glasgow ha reso la rivalità sportiva più significativa o l’ha spostata su un terreno non consono?

E’ indubbio che, agli occhi di lettori meno attenti, la contrapposizione Celtic – Rangers sembra sia basata per lo più sulla dicotomia religiosa ma, in realtà, c’è decisamente di più.
Si tratta di squadre che hanno fatto la storia del calcio scozzese ed europeo e continuano a farla anche se il Celtic sembra essere entrato in una spirale che lo porta ad essere più competitivo in ambito nazionale al contrario dei Rangers che anche quest’anno competono con successo in ambito europeo (si veda la recente conquista della semifinale di Europa League). Diciamo che la “questione religiosa” e le radici storico-culturali che permeano le due tifoserie ha aggiunto, senza dubbio, un ulteriore elemento distintivo che rende questoderby quasi unico al mondo, anche se la stampa ha tentato troppe volte di spostare il tema su un terreno solo extracalcistico (basta ricordare lo spazio dedicato anni fa alla vicenda del portiere polacco Boruc del Celtic preso di mira dai tifosi dei Rangers per essersi fatto il segno della Croce davanti alla curva “nemica”) e per questo, forse, nel libro abbiamo cercato di sottolineare con forza le gesta calcistiche delle due squadre che hanno dato lustro a tutto il calcio britannico, con il Celtic protagonista della prima vittoria assoluta di una squadra del Regno Unito in Coppa dei Campioni.

Aberdeen e Dundee United, protagonisti della New Firm, hanno avuto un clamoroso quanto momentaneo apice: per quali ragioni non hanno dato continuità agli anni vittoriosi?

E’ vero, Aberdeen e Dundee Utd sono state quasi due “meteore”, nel panorama scozzese con successi in campo nazionale ed internazionale dal grande peso (la vittoria in Coppa delle Coppe dei primi ed il raggiungimento della semifinale di Coppa dei Campioni da parte dei secondi ne sono una testimonianza tangibile) ma, probabilmente, si è trattato di due compagini che, pur potendo contare su tifoserie appassionate non hanno mai avuto un seguito, in termini di pubblico, paragonabile alle due regine di Glasgow e, soprattutto, si tratta di realtà dal minore appeal anche per gli investitori locali e le grandi multinazionali che hanno sempre firmato contratti meno onerosi rispetto ai giganti di glasvegiani sicuramente più “spendibili” anche sul mercato internazionale. Insomma, una questione di
“soldi”, come accade dappertutto.

Qual è stato il contributo degli allenatori stranieri al calcio scozzese? L’hanno in parte snaturato?

Qui si apre una parentesi piuttosto complessa che, alla fin fine, riguarda in modo particolare i Rangers che sono stati gli apripista per l’arrivo di Manager stranieri nella Premiership Scozzese a partire da Dick Advocaat fino ad arrivare all’attuale Giovanni Van Bronckhorst. Almeno in casa “blues” il primo ha portato, da un lato, giocatori di respiro più europeo ma che hanno finito per gravare eccessivamente sul bilancio e condurre i Rangers verso la bancarotta, l’ultimo, al contrario, ha riportato i “protestanti” a primeggiare
in Europa, seppur nella seconda competizione per club. Dal punto di vista tecnico, a nostro parere, il contributo non sembra essere poi stato così imponente rispetto a quanto insegnato dai tecnici autoctoni anche perché la marcatura “a zona” non era più una novità e così pure il calcio più tattico e ragionato già impostato dallo stesso Ferguson ad Aberdeen negli anni ’80. Gli ultimi Rangers dell’ex giocatore olandese, invece, fanno del gioco d’attacco la loro principale arma e bisogna dire che i risultati ci sono, anche se la
campagna europea ha finito per pesare negativamente sul campionato. Nell’attuale stagione anche il Celtic ha un allenatore straniero (Postecoglou) ma, aldilà dell’ovvietà del ruolo da protagonista in patria, non sembra aver dato quel plus in termini di proposta di gioco.

L’era gloriosa della nazionale scozzese degli anni’70 e 80 come ha influito sulla natura e sulla percezione del calcio scozzese?

Sicuramente la partecipazione a due edizioni consecutive dei Campionati del Mondo ha inciso in maniera positiva su tutto il movimento. Erano i tempi dei grandi giocatori come Kenny Dalglish, Dennis Law, Peter Lorimer, Joe Jordan, campioni (alcuni fuoriclasse come Dalglish e Law) che hanno fatto conoscere il nome della Scozia anche al di là dei confini nazionali per un calcio mai speculativo ma sempre propositivo, il tutto, purtroppo, condito con la beffa dell’eliminazione al primo turno dei Mondiali tedeschi del 1974 senza conoscere sconfitta. Ma la popolarità della nazionale scozzese raggiunse una delle vette più alte anche 4 anni dopo quando la rete di Gemmil permise di battere, nel girone eliminatorio della fase finale dei Mondiali d’Argentina, l’Olanda vicecampione del mondo in carica e futura finalista anche della nuova edizione. Purtroppo, ci pensò il Perù a riportare sulla terra la Tartan Army ma ormai il “fenomeno” Scozia era scoppiato.

Qual è la vostra opinione sull’attuale condizione del calcio scozzese?

Se ci fermiamo a scattare una fotografia attuale della situazione del football in Scozia, va detto che ci troviamo difronte ad una fase calante sia dal punto di vista tecnico (anche se va ribadito il bel percorso europeo dei Rangers) con l’eccessivo distacco tra le due grandi ed il resto della “plebe” calcistica, sia dal punto di vista dell’appeal televisivo: allo stato attuale, i diritti televisivi della Premiership scozzese non sono stati acquistati da nessuna delle grandi emittenti satellitari europee e quest’oscuramento non fa certo bene al movimento in toto. Se, poi, vogliamo soffermarci sull’aspetto tecnico, bisogna
onestamente dire che si vede poco di nuovo ormai, soprattutto per quanto concerne le squadre di secondo e terzo piano, anche perché i migliori giocatori emigrano ormai, spesso nella vicina Inghilterra, quasi imberbi, preferendo addirittura costruirsi una carriera sui campi delle divisioni minori inglesi che facendosi le ossa nella Scottish Premiership.
Tuttavia, la grande forza del calcio scozzese risiede, comunque, nella sua “tradizione” più che tra le pieghe di un afflato tecnico-tattico, ciò che ruota attorno alle 12 compagni di Premiership, cioè il pubblico appassionato, l’atmosfera spesso d’altri tempi e l’orgoglio di rivendicar le proprie diversità sono la vera ricchezza che ancora ne mantiene inalterato il suo fascino.

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