
In un libro dettagliato e colmo di contenuti Indro Pjaro ripercorre la storia del fenomeno Hooligan, mettendone in luce l’evoluzione stessa e le peculiarità, nonché l’implementazione delle misure di contenimento. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Come nasce il progetto di dedicare un libro al fenomeno Hooligan a 33 anni dal Taylor Act?
L’idea nasce dalla mia profonda curiosità nell’approfondare la storia, l’evoluzione e le dinamiche di un fenomeno che, alla pari del calcio, gli inglesi hanno inventato ed esportato prima in Europa e poi nel mondo. Si tratta di un argomento sul quale all’estero e nell’ambiente accademico si è scritto molto, ma di cui mancava nel nostro Paese un libro ad esso dedicato – un po’ come accaduto tempo fa quando pubblicai quello sul disastro di Hillsborough. L’hooliganismo, in particolare, è un tema che mi ha sempre interessato per le sue vaste implicazioni sportive, sociali, culturali e di costume che ben si intrecciavano con l’Inghilterra nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Novanta. A questo ci aggiungo anche il desiderio di sconfessare alcuni luoghi comuni che puntualmente infettano il dibattito pubblico nostrano quando si fa riferimento a un fantomatico modello inglese ogni qualvolta accadano episodi di violenza.
Le indicazioni di tale rapporto sarebbero potute essere identificate e implementate prima, con una visione meno miope e più allargata della questione?
Il rapporto Taylor conteneva raccomandazioni di cui in larga parte si era già discusso nei precedenti sessant’anni, in particolare quelle concernenti la messa in sicurezza degli stadi e del pubblico che li frequentava mediante il rilascio di un’apposita licenza, la fissazione di un limite massimo di capienza e l’individuazione di adeguati tornelli ed uscite di sicurezza. Quello che impedì una loro celere implementazione, oltre alla mancanza di una legislazione specifica e vincolante, fu il persistente atteggiamento di apatia sia dei club che della federazione: i primi poiché dediti esclusivamente ad ingaggiare i migliori calciatori sul mercato, la seconda perché impegnata nella lotta all’hooliganismo senza però badare alla ristrutturazione di impianti vecchi e pericolosi, risalenti alla fine dell’Ottocento e costruiti in buona parte in legno, per garantire la salvaguardia degli spettatori. Qualcosa iniziò a cambiare dopo il secondo disastro di Ibrox Park del 1972 con la presentazione dell’indagine Wheatley Report che pose le basi per la pubblicazione della Green Guide, un vademecum dettagliato sulla gestione degli stadi, e soprattutto per la promulgazione del Safety of Sports Grounds Act, la prima legge in materia di sicurezza varata dal Parlamento. Ma fu soltanto dopo il disastro di Hillsborough che le cose conobbero un effettivo e drastico cambiamento. L’ennesimo incidente dovuto al mix letale di tutte le inefficienze dell’industria calcistica e i quasi cento morti misero tutti d’accordo sull’impossibilità di procrastinare e nascondere per l’ennesima volta la polvere sotto il tappeto.
Ti chiedo quanto abbia pesato la visione di Margaret Tatcher volta a vedere il calcio come una seccatura e non un contesto complesso e problematico.
Indubbiamente una visione tanto obnubilata da un sentimento di profonda avversione per il gioco ebbe un peso non indifferente nell’infiammare una situazione già di per sé delicata che avrebbe richiesto misure equilibrate. Erano anni in cui l’Inghilterra aveva attraversato un saliscendi di momenti contrapposti: la ribellione giovanile degli anni Cinquanta, il benessere degli anni Sessanta, poi la crisi energetica, l’inflazione, le proteste sindacali, la guerra nelle Falkland e gli attentati dell’Ira tra gli anni Settanta e Ottanta, tutti eventi che in qualche modo avevano relegato il problema hooligan e sicurezza degli stadi in secondo piano. Bisogna però riconoscere che nessuno in quel periodo, come riscontrato nel Taylor Report, era esente da colpe: non c’era soltanto il governo Thatcher ad aver agito con eccessiva risolutezza e in maniera fortemente discriminatoria verso l’intera categoria dei tifosi, ma anche presidenti che avevano badato solo ai propri guadagni, giocatori che si abbandonavano ad esultanze eccessive e provocatorie, comuni e club disinteressati ad investire in strutture di qualità e giornalisti incapaci di filtrare gli episodi di violenza, creando una narrativa distorta attorno agli inglesi che li vedeva sempre pronti a scatenare disordini in casa e all’estero. Tutte queste mancanze ebbero un ruolo notevole nel creare quel clima di tensione che ad Hillsborough deflagrò in tutta la sua drammaticità.
É azzardato asserire come per tanti anni il fenomeno Hooligan sia stato una piaga da accettare per il governo britannico, magari per non andare a fondo delle questioni sociali e della carente normativa a riguardo?
Per anni l’hooliganismo rimase un problema indefinito e ancor meno capito a causa dell’assenza di dati specifici che ne indicassero la portata, come il numero di arresti e la quantificazione dei danni provocati. Mancavano infatti adeguati strumenti tecnologici e misure sia preventive che repressive capaci di fungere da deterrente. Sul finire degli anni Sessanta il parlamento si chiese quali fossero le soluzioni più idonee per migliorare lo stato di salute del sistema calcistico nazionale, arrivando a finanziare le prime inchieste sul football hooliganism. Seppur in modi diversi, tuttavia, sia l’Harrington Report che il Lang Report non riuscirono ad essere del tutto esaustivi nel dirimere la questione. Il fatto che poi il fenomeno si fosse intrecciato alla fioritura delle sottoculture giovanili rendeva inizialmente complesso distinguere quelli che erano dei frequenti eccessi adolescenziali tipici di fine settimana assai alticci da vere e proprie manifestazioni violente correlate allo svolgimento di una partita di calcio. La maggior parte degli spettatori, infatti, non aveva vissuto in prima persona gli effetti dell’hooliganismo, ma si era limitata ad apprenderli dai giornali. Tutto cambiò con i disordini di Kenilworth Road tra i tifosi di Luton Town e Millwall nel 1985 trasmessi in diretta televisiva nazionale: per la prima volta la violenza passò dall’essere solamente letta all’essere vista.
Essere un hooligan era più un fatto di appartenenza ad un movimento o più una valvola di sfogo verso una società abietta ed ingiusta? Come veniva letta la situazione nel pieno del fenomeno in questione?
La letteratura britannica si occupò a lungo dell’eziologia del fenomeno. Nel 1971 Ian Taylor lesse l’hooliganismo come espressione di un «movimento di resistenza» attuato dai tifosi tradizionali contro i tentativi di «imborghesimento» e «internazionalizzazione» che li avrebbero alienati dal gioco. Poi toccò nel 1978 a John Clarke, che in maniera analoga individuò le ragioni della violenza calcistica nella virata del gioco verso la «professionalizzazione» e «spettacolarizzazione» che avrebbero creato un sentimento di frustrazione tra i tifosi della working class. Il secondo filone è quello operato dalla Scuola di Oxford nel volume The Rules of Disorder, pubblicato nel 1978 e curato da Peter Marsh, Elizabeth Rosser e Rom Harrè. Gli autori fecero leva sulla labelling theory (teoria dell’etichettamento) secondo cui la devianza è creata e alimentata attraverso la reazione della società nei confronti di un atto considerato deviante. Stando a questa visione, gli episodi di violenza negli stadi sarebbero equiparabili a dei comportamenti rituali aggressivi retti da un sistema di simboli collegati al contesto sociale di una cultura che prevede il rispetto di «regole del disordine» atte a garantire adeguate condizioni di sicurezza e ridurre al minimo il rischio di infortuni. Per gli studiosi della Scuola di Oxford gran parte degli incidenti connessi all’hooliganismo aveva di conseguenza una valenza minore di quanto sembrasse e di quanto riportato dai media proprio per la presenza di codici capaci di dirigere e controllare l’aggressività. Il terzo filone porta infine la firma di Eric Dunning, Patrick Murphy e John Williams, principali rappresentanti della Scuola di Leicester, ai quali si deve la più importante ricostruzione storica del football hooliganism. L’oggetto della loro indagine riguardava la provenienza sociale dei teppisti, riscontrata negli strati più bassi della popolazione, per i quali provocare incidenti rappresentava una delle poche fonti di eccitazione allo scopo di compensare gli insuccessi delle loro vite. I ricercatori ritenevano che gli hooligan vedessero nella propria curva un territorio da difendere, e in quella avversaria un territorio da attaccare e conquistare. ùPiù in generale, oltre alle sopra citate teorie, media, politica e opinione pubblica cercarono di spiegare il fenomeno hooligan additandone le cause al consumo di alcolici, agli sviluppi rudi delle partite o al cattivo arbitraggio, alla disoccupazione, al sovraffollamento negli stadi o alla troppa tolleranza per certi atteggiamenti. Nessuno di questi fattori, preso singolarmente, risultò però mai del tutto preponderante rispetto agli altri. È assai più probabile, invece, che fu la loro complementarità l’origine del problema.
Dal libro si evince come si siamo prese le conformazioni degli stadi di altri paesi (anche l’Italia) per risolvere parte dei problemi: dove invece è riscontrabile il punto di svolta del sistema inglese?
Il punto di svolta fu la generale presa di coscienza di tutti gli attori dell’industria calcistica: club, lega, federazione, istituzioni, media e tifosi capirono che così non si poteva e doveva andare avanti. L’Heysel era stato lo spartiacque nella lotta all’hooliganismo, Hillsborough invece fu l’anno zero del nuovo modo di intendere gli stadi: più piccoli, più sicuri e più funzionali. Inizialmente furono presi a modello gli impianti italiani, recentemente costruiti o ristrutturati per il Mondiale, per via della pista di atletica che avrebbe consentito al pubblico di sfollare in caso di disordini e i fossati di separazione tra campo e tribuna furono visti come un efficace deterrente contro le invasioni. Le stesse, insieme ai cori osceni e al lancio di oggetto, divennero un reato, punibile con ammenda, arresto o entrambe, e questo contribuì a calmare le animosità sugli spalti. Infine, con l’acquisizione degli stadi da parte di ricchi gruppi imprenditoriali attirati dal neoliberismo britannico e dalla possibilità di lucrare grazie ai vantaggiosi accordi sui diritti televisivi, fu nell’interesse di tutti garantire al calcio inglese un’immagine più glamour e patinata che facesse presto dimenticare gli anni bui in cui aveva sempre convissuto e che lo avevano a lungo impregnato di una pessima fama.
Esisteva davvero una correlazione tra atteggiamenti ed avvenimenti in campo e reazioni violente sugli spalti?
Sin dalla fine dell’Ottocento, poco dopo l’invenzione del calcio, iniziarono a segnalarsi disordini sulle approssimative tribune sorte attorno ai campi da gioco. Erano anni in cui violenza e rudezza erano moralmente accettate nella società industriale, e per questo non sorprendeva che a volte il pubblico, di estrazione quasi esclusivamente proletaria, si abbandonasse a simili eccessi. Gli incidenti potevano però anche scaturire da errori arbitrali, dalla cattiva prestazione della propria squadra o persino da atteggiamenti provocatori dei calciatori. Tutto questo insieme di fattori creava nei tifosi la convinzione di aver speso inutilmente il costo del biglietto d’accesso guadagnato con tanto sforzo nelle fabbriche. Le cose andarono poi peggiorando a partire dagli anni Sessanta, quando l’hooliganismo divenne un problema sociale su scala nazionale e il discorso attorno ad esso si intrecciò con un più vasto e generale decadimento degli usi e costumi tradizionali che avevano reso grande l’Inghilterra e che riguardò tanto il pubblico sugli spalti quanto i calciatori in campo.
In un passaggio del libro definisci l’atmosfera delle terrace “anarchica”: in che senso?
L’atmosfera delle terrace era anarchica nel senso che non esistevano regole, nemmeno per quanto concerne la vendita dei biglietti in questi settori. Se ne davano ben più di quella che era l’effettiva capienza, un po’ per soddisfare l’enorme fame di football del popolo inglese, un po’ perché la possibilità di incassare più denaro del solito faceva gola a moltissime squadre, spesso alla ricerca dei migliori calciatori sul mercato, una volta abolito, a metà anni Sessanta, il salary cap sugli stipendi. Nelle terrace, inoltre, era raro vedere la presenza di steward e poliziotti: i primi perché si limitavano alle procedure di afflusso, i secondi perché solitamente si occupavano di garantire l’ordine pubblico all’esterno degli stadi, delegando alla presenza di gabbie e recinzioni il compito di contenere le manifestazioni della violenza per garantire il corretto andamento dell’incontro. L’idea di base, in pratica, era vietare ad ogni costo invasioni di campo, disinteressandosi di tutto quello che accadeva sugli spalti, da possibili tumulti a situazioni di sovraffollamento. In quest’ultimo caso, in particolare, la prassi era ritenere che ogni persona fosse in grado di trovare posto sulle terrace in maniera autonoma secondo la pratica del “finding their own level”.
Qual è la tua opinione del sistema degli stadi inglesi, ma non solo, volto più a soddisfare dei consumatori che ospitare dei tifosi?
Gli inglesi hanno certamente avuto il merito di capovolgere il concetto di fruizione di un evento sportivo, pensando a tutto ciò che potesse rendere più appetibile un incontro di calcio. Sin dagli anni Ottanta si cominciò a parlare di una qualche forma di intrattenimento per il pubblico già nel prepartita, inizialmente con l’idea di scongiurare il rischio sovraffollamento sugli spalti dovuto alla tendenza dei tifosi ad entrare allo stadio solo a ridosso del fischio d’inizio. Ma fu solo grazie ai dettami del Taylor Report che la situazione conobbe un effettivo miglioramento: gli inglesi furono infatti bravi a riqualificare un prodotto che in precedenza essi stessi avevano guardato con distacco e imbarazzo per la pessima condizione in cui versava. Intervennero così per migliorare tutte le componenti attorno al sistema calcio, ovvero stadi, tifosi e giocatori, e lavorarono per incrementare i profitti da sponsorizzazioni, pubblicità sui maxischermi, cartelloni a bordo campo, match programme, biglietti, abbonamenti, emissione di obbligazioni e diritti televisivi. Rendersi vendibili all’estero comportò quindi un repulisti di tutte quelle criticità che avrebbero impedito la crescita, come impianti pericolosi e tifosi violenti, e da questo nacque il desiderio di rivolgersi a un pubblico nuovo, diverso e più attento alla qualità del servizio espresso all’interno di un contesto più raffinato, familiare e borghese. Aumentare il prezzo dei biglietti non servì solo da deterrente per impedire l’accesso agli hooligan, ma fu soprattutto dovuto al bisogno di incassare liquidità per ristrutturare gli stadi e adeguarsi alle normative Uefa per ospitare eventi internazionali. Tutte queste trasformazioni hanno tolto gran parte dell’atmosfera chiassosa e intimidatoria di un tempo e sono state in larga parte figlie di quei concetti di entertainment e consumismo tipico degli sport americani che furono alla base della nascita della Premier League. Per invogliare le emittenti ad investire in uno sport che fino ad allora era stato poco “televisivo” e attraente a causa del suo doloroso passato servì anche imbottire gli stadi di persone etichettabili più alla stregua di clienti/consumatori che non di tifosi, ancora ostaggio di stereotipi poco edificanti dati gli eccessi di una piccola minoranza, al fine di trasmettere l’immagine di un pubblico educato e ordinato. Questa gentrificazione è stata evidente soprattutto nei top club, mentre nelle realtà minori lontane dai riflettori della Premier League ha attecchito meno. La recente introduzione delle safe standing, a seguito delle decennali richieste di poter scegliere se assistere a una partita stando in piedi o seduti, potrebbe però fungere da anello di congiunzione tra la tradizione popolare delle vecchie terrace e la modernità di nuove strutture sicure, pratiche e funzionali portando benefici a giocatori, club e soprattutto ai tifosi stessi.
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