Intervista: Ho Visto La Rivoluzione

Lorenzo Fabiano ripercorre il Mondiale del 1974 combinando i risultati ed cambiamenti tecnici tattici espressi con le sue emozioni di bambino, in un libro molto coinvolgente e dettagliato. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’idea e l’esigenza di mettere su carta le tue emozioni e le tue valutazioni sul Mondiale del 1974?

È stato un viaggio a ritroso nei ricordi della mia infanzia. Per un malato di calcio il primo mondiale è un po’ come il primo bacio, non lo scordi più. Ho voluto raccontare il campionato del mondo che segnò il passaggio al calcio moderno, nel senso buono del termine ovviamente. La prima volta di una nazionale africana, gli sponsor tecnici, e soprattutto un nuovo modo di concepire il calcio con un’incidenza sempre maggiore dell’aspetto atletico e tattico. Un modo di fare calcio anche senza palla, cosa cui non eravamo abituati. La verità è che quel mondiale segnò uno spartiacque nella storia del football. Mi sembrava giusto raccontarlo.

È stato un torneo che ha incarnato il clima sociale e magari politico internazionale?

Direi che gli aspetti sociali ci sono tutti. L’Olanda portò quella rivoluzione perché un Paese moderno, aperto, multiculturale e progressista; l’Italia nel 1974 si divise sul referendum sul divorzio: eravamo in ritardo, e quel ritardo si vide anche su un campo di calcio.

Qual è la caratteristica principale che ti ha impressionato della nazionale olandese? È corretta considerarla formativa anche per il calcio odierno?

Quell’Olanda cambiò il modo di giocare a pallone; si muoveva in lungo e in largo per il campo come una fisarmonica, un’orchestra diretta dal più grande calciatore europeo di tutti i tempi, Johan Cruijff. 

Nonostante i successi delle squadre olandesi in Europa c’è stata una certa impreparazione  a fronteggiare la nazionale olandese: é stata una inizialmente sottovaluta?

Nei confronti degli olandesi, più che sottovalutazione ci fu palese impreparazione: non sapevano come affrontarli, in molti non ci capirono nulla e vennero travolti. Direi tutti, tranne i tedeschi. 

In un Mondiale nel quale anche il Brasile pensava a difendersi la “rivoluzione” è stata portata da nazionali neofite del panorama internazionale (Paesi Bassi, Polonia, ma anche Svezia): come spighi tale fenomeno?  

Germania Ovest a parte, fu il mondiale che ridisegnò la geografia del pallone. Il football sudamericano ne uscì a pezzi; il Brasile, alle prese con un complicato dopo-Pelè, fu annientato proprio dall’Olanda nella semifinale di Dortmund, l’Argentina era una squadra senza capo né coda, l’Uruguay peggio ancora.  Emersero le squadre più fisiche e ben organizzate: la Polonia, ad esempio, che aveva vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi del ‘72 e nelle qualificazioni aveva fatto fuori gli inglesi. Una gran bella squadra quella Polonia, con grandissimi giocatori come Lato, Deyna, Kasperczak e un portiere matto ma efficace come Tomaszewski. E ne facemmo le spese proprio noi.

È corretto considerare Johan Neeskens come prototipo del giocatore perfetto del Totaalvoetbal di Rinus Michels?

Detto che Cruijff era Cruijff, Neeskens era senza ombra di dubbio il giocatore che più di ogni altro incarnava il calcio totale di Michels; sapeva far tutto e tutto faceva; e con lui Van Haneghem, che il calcio totale lo aveva appreso da un maestro come Ernst Happel al Feyenoord.

In molti ritengono che solo la pragmatica Germania Ovest avrebbe potuto sconfiggere Cruijff e compagni: sei d’accordo?

Concordo, anche perché dimostrato dai fatti. Quella Germania univa grandi individualità a grande organizzazione. Fu l’unica a mettere in difficoltà l’Olanda e a segnarle un gol su azione. Non fu certo un caso, anche se in quella finale bisogna dire che molti demeriti li ebbe l’Olanda, che andò subito in vantaggio e pensò di averla già vinta. Un gravissimo errore che non devi mai commettere contro i tedeschi…

Quanto è stata terapeutica in tal senso la sconfitta della nazionale di Helmut Schön contro la Germania Est? 

Il derby perso contro la Germania Est fece paradossalmente bene a Beckenbauer e compagni. Netzer, un caso aperto nello spogliatoio fino a quella sera, fu messo da definitivamente da parte. La squadra fece gruppo attorno a due leader come Beckenbauer e Overath e si ritrovò.

Ferruccio Valcareggi è stato il capro espiatorio di una spedizione azzurra a dir poco destabilizzata? Gli riconosci qualche colpa specifica?

Nelle baruffe italiane finisce sempre così. Pagò per tutti Feruccio Valcareggi, un gentiluomo che ebbe l’unica colpa di essere troppo buono e non saper più tenere in pugno uno spogliatoio che era una polveriera. Ma il nostro maggior fallimento fu non capire il cambiamento in atto: giocavamo un calcio vecchio, e fummo giustamente puniti per questo. Finì male, come doveva finire. 

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