
Alessandro Ruta ci accompagna in un bel viaggio calcistico in Spagna, soprattutto nei posti più di nicchia e particolari, dove è forte il legame tra contesto e calcio. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Come nasce l’idea del libro e quale esigenza sei andato a soddisfare con la sua realizzazione?
Il libro nasce dai tanti viaggi, soprattutto in macchina, che ho fatto in giro per la Spagna, sia per lavoro che per svago. Non so se ho soddisfatto qualche esigenza, però una guida così non esisteva, se non focalizzata su alcune città. E cito in questo quelle di Enzo Palladini e Jvan Sica, per esempio, le Football City Guides di InContropiede, che trovai molto interessanti: almeno, quella di Napoli, che lessi a suo tempo. Però un giro a 360° di un paese non era mai stato fatto. Come tengo a precisare, però, questa non è una reale guida turistica, perché ci sono dei posti che nemmeno i locali conoscono.
Nel leggerlo ho colto anche la volontà di andare oltre certi luoghi comuni sulla Spagna, è corretto?
La Spagna è un meraviglioso equivoco. Lo affermo da tempo, ma l’immagine che ne abbiamo non è assolutamente quella reale. La cartolina è il caldo, la spiaggia, la movida, i tori, le nacchere, certi colori giallo-rosso-ocra: in una parola, Siviglia. Nemmeno Barcellona, ma Siviglia. In generale quella parte di Andalusia intorno a Siviglia. In compenso ci sono dei posti in Spagna che non c’entrano nulla con questo e sono la stragrande maggioranza. Ho guidato per chilometri nel Bierzo, una zona a cavallo tra la provincia di Leon e la Galizia, dove mi sembrava di essere in “Into the Wild”, con i calanchi e i fiumi, circondati da vigneti: o i canyon tipo Arizona, andando verso Huesca e i Pirenei. Per non parlare dei deserti, dei campi coltivati a girasoli perché i semi essiccati qua li mangiano come le caramelle; ore e ore al volante su queste strade provinciali dove pregavo di non avere problemi meccanici o che il serbatoio fosse pieno, perché non c’era niente, ma niente davvero. Ecco, la Spagna reale è la polvere che si alza dalle statali, i cartelli che danno indicazioni per chissà quale città e che invece ti portano in un buco da 1500-2000 abitanti, due o tre bar sulla strada principale, una chiesetta, nomi di paesi lunghissimi che sembrano addirittura titoli di romanzi. Ti segnalo nel libro El puente del arzobispo, “Il ponte dell’arcivescovo”, che non è un libro, ma il paesotto in provincia di Toledo dove nacque Goyo, per 13 anni al centro della difesa del Real Madrid, dal 1969 al 1982, oltre 400 partite giocate. Ecco, a me affascina molto anche questo, ed è stata la spinta principale per il mio libro.
È giusto affermare come anche in Spagna il calcio sia un mezzo per dare riconoscimento e visibilità a città o zone poco conosciute?
Assolutamente. C’è gente che va in pellegrinaggio, per dire, al minuscolo “pueblo” di Fuentealbilla, dove è nato Iniesta e dove è cresciuto fino ai 9 anni. Io pure ci sono stato ed è davvero uno spaccato di periferia dell’impero. Parliamo di quattro case intorno a una piazza, in cui c’è il bar dei nonni di Iniesta, ben segnalato, e tutt’intorno le cantine del vino che produce lo stesso Iniesta, che naturalmente non esistevano quando era ancora sconosciuto. Caldo, caldo atroce, d’estate gli abitanti si radunano in qualche locale, la vita è come inchiodata. La gente di Fuentealbilla, La Mancha profonda, centro-sudest della Spagna per dare un’indicazione, se proprio vuole esagerare nel fare serata va ad Albacete, il capoluogo di provincia, che non ha nulla di attrattivo, ma è il punto di riferimento della zona. Ecco, immaginiamoci per un bambino di lì andare a Barcellona, 5 ore più a nord, cambiare la vita a 360° e diventare, dopo mille difficoltà di ambientamento iniziali, uno dei più grandi calciatori di sempre. Uno dice “Eh, ma Gigi Riva è di Leggiuno”: ma vuoi mettere il Lago Maggiore col nulla della Mancha? Questi aspetti secondo me sono molto affascinanti. E come Iniesta di casi simili ce ne sono tanti altri, che troveranno i lettori nel mio libro.
Anche il Spagna lo stadio rappresenta un simbolo, tuttavia molto impianti storici sono stato demoliti e sostituiti da altri più moderni: personalmente prediligi la storicità di un impianto datato o la dimensione avveniristica dei nuovi?
Il discorso forse è troppo complesso. Parlo per me, ho visto partite a Bilbao al vecchio San Mamès e al nuovo, costruito praticamente sopra l’altro. Sono esperienze diversissime, ma stimolanti. La prima volta fu come in una corrida, tutti vicini (anche se ero in tribuna stampa), ampi punti dove non si vedeva nulla, ma si intuiva soltanto quello che stava succedendo. Adesso San Mamès è un salotto dove si vede bene tutto ed è per la Uefa tra i migliori impianti d’Europa. Il mio libro inizia e si chiude in due stadi che per noi italiani hanno rappresentato tantissimo: Bernabeu e Sarrià. Quest’ultimo non esiste più, l’altro lo stanno riammodernando. Il ricordo, comunque, rimarrà per sempre.
In un contesto calcistico affascinante spicca la particolarità di quello basco, cosa lo rende così unico ed immune alle nuove tendenze?
Il motivo è essenzialmente geografico. Per farla breve, i rapporti tra la costa bilbaina e l’Inghilterra, patria del calcio, erano fortissimi 120-130 anni fa e a mo’ di prodotto d’esportazione arrivò anche il football. Da lì una diffusione capillare in una regione con 2 milioni di abitanti e capace di avere 4 squadre contemporaneamente nella Liga (Athletic, Real Sociedad, Alaves, Eibar). Immune alle nuove tendenze non so, perché anche dove vivo io il “calcio moderno” ha attecchito in vari modi. Una zona molto simile ai Paesi Baschi come attaccamento culturale e sociale al calcio è senza dubbio la Galizia: anche lì, tanti porti e tanti commerci. Credo che siano le regioni nel libro con più posti citati, levando Madrid e Barcellona intese come città.
Hai vissuto sia in Italia che in Spagna, quindi ti chiedo se trovi delle assonanze nel modo di vivere il calcio tra le due nazioni, magari tra certe zone.
Bisogna sempre ricordare che la Spagna è grande due volte l’Italia e ha circa poco più della metà dei nostri abitanti. Per fare dei termini di paragone, la Sicilia è la regione più grande d’Italia e ha circa 25mila chilometri quadrati: ecco, in Spagna prima in questa speciale classifica è la Castilla y Leon, che di chilometri quadrati ne occupa 94mila, quindi quasi 4 volte la Sicilia, con una superficie pari a tutto il nord Italia dalla Valle d’Aosta al Friuli. E bisogna ricordare anche che ci sono intere regioni dove il calcio ad alto livello di fatto non si è mai visto. Penso all’Extremadura, che è grande come Emilia Romagna e Veneto messi assieme, e ha avuto sporadicissime squadre capaci di arrivare nella Liga. O la stessa Castilla y Leon, dove la squadra più conosciuta è il Valladolid, che fa su e giù tra Liga e Segunda Divisiòn. Eppure da ogni punto di questo immenso paese c’è chi arrivato in alto, o ha lasciato un segno. Non sorprende, però, che nelle regioni “povere di calcio”, ma anche “povere in generale”, alla fine si ripieghi su Real Madrid o Barcellona. Altrove, dove la concentrazione locale è più forte (Paesi Baschi, Navarra, Galizia) il tifo è per le squadre del posto. Difficile fare un paragone con l’Italia, a mio avviso.
Se dovessi consigliare un luogo da visitare fuori dai soliti cliché quale o quali sceglieresti tra i tanti da te raccontati?
Naturalmente uno sperduto, ma discretamente collegato. E quindi Trasmoz, in Aragona, a metà strada tra Pamplona e Saragozza. Lì hanno intitolato una via, in questo minuscolo borgo nel già citato nulla circondato dal nulla, a un gol, quello di Nayim nella finale di Coppa delle Coppe del 1995. Mi fa sorridere l’idea che la gente si dia appuntamento, magari, in “Calle gol de Nayim” per poi andare in giro.
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