
Il libro di Mauro Bonvicini ripercorre la storia e l’evoluzione della tifoseria scozzese, in un’analisi ampia e completa dal punto di vista sociale, culturale e sportiva. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Quali finalità ti sei posto nella realizzazione del tuo bel libro?
Per prima cosa, un sentito ringraziamento a Bibliocalcio per l’interesse dimostrato nei confronti de Il Ruggito di Hampden. A fronte dell’enorme fascinazione che nel nostro Paese pare circondare il calcio scozzese e i suoi tifosi, la reale conoscenza di questi e dei fenomeni culturali che ne sono corollario è sempre stata piuttosto superficiale, cosa che nel corso degli anni ha generato tutta una serie di stereotipi e pregiudizi (positivi e negativi) che ne hanno inficiato una generale comprensione. Gravitando attorno a
questo mondo da ormai più di due decenni, al punto di sentirlo ormai mio, ho avvertito la necessità di raccontarne la storia mettendo a fuoco nel modo più accurato, documentato e preciso possibile le sue dinamiche, offrendo una prospettiva magari meno romantica, ma più vicina alla realtà. Un modo, quindi, per sgomberare il campo da diversi equivoci che a volte risultano particolarmente fastidiosi anche per gli Scozzesi stessi.
In secondo luogo, interessandomi da sempre di sottoculture e del legame che queste hanno con il calcio, ho ritenuto meritevole porre l’accento su come quest’ultimo sia stato e rimanga anche un veicolo per l’espressione di dinamiche identitarie. In un’epoca in cui si tende a inquadrare lo sport solo in termini di intrattenimento (o, peggio ancora, di mero business), la storia della tifoseria scozzese dimostra chiaramente che la sua portata è enormemente più ampia e afferisce molto spesso la sfera sociale e culturale con la quale interagisce e si influenza a vicenda. Una presa di coscienza che può essere utile
anche alle nostre latitudini per tentare di raddrizzare la barra di una barca (quella del calcio, appunto) sempre più lontana dalla sua rotta originaria.
Infine, ma non da ultimo, ho voluto dedicare una sorta di tributo ad una squadra e a una tifoseria che ricoprono un ruolo importante nella mia vita. Grazie ad essi, infatti, ho potuto attraversare mezza Europa, conoscere persone stupende che annovero tra i miei migliori amici e vivere emozioni difficilmente ripetibili in altri contesti.
Quanto è durata l’attività di ricerca, specie per le epoche più datate, e come hai organizzato il relativo modus operandi?
Se si fa riferimento al lavoro di ricerca vero e proprio, ho speso più di due anni immerso in letture di testi accademici e di diari, ricerche di archivio e interviste con alcuni dei protagonisti dei fatti narrati. Un periodo intenso, ma senza dubbio stimolante soprattutto nelle fasi di interazione con i tifosi della “prima generazione” che alla fine degli anni Settanta hanno dato vita all’esperienza della tartan army propriamente detta. Una interazione che, per mia fortuna, è andata ben al di là di una serie di questionari cui rispondere. Molti degli intervistati sono amici di lunga data e di conseguenza una parte non trascurabile delle informazioni che ho utilizzato me le hanno fornite nel corso di chiacchierate davanti ad una pinta prima o dopo qualche partita. Un modus operandi, per riprendere la domanda, particolarmente gradevole e adatto al terreno di indagine. Ho sempre ritenuto un privilegio potermi confrontare con loro non soltanto per poter “attingere” alle conoscenze di cui sono custodi, ma anche per l’opportunità che mi hanno offerto di ragionare sulle differenze di approccio al calcio che contraddistinguono l’epoca moderna rispetto al passato quando l’assenza di una copertura mediatica così capillare obbligava a interpretare il proprio essere tifosi sempre e comunque in una chiave di reale partecipazione all’evento. Oggi – è sotto gli occhi di tutti – questo non è più necessario avendo a disposizione un’ampia gamma di strumenti che avvicinano il simpatizzante alle gesta della squadra anche a migliaia di chilometri di distanza facendo così venir meno quella straordinaria spinta aggregativa di cui molti ancora oggi sottolineano l’importanza e che spero di aver sufficientemente messo in evidenza nelle pagine del libro.
Ovviamente per quanto riguarda i periodi più lontani nel tempo questo accesso alle fonti primarie è ormai precluso, ma gli archivi dei quotidiani – se sapientemente filtrati onde depurarli da eccessi sensazionalistici che anche nel passato abbondavano – si sono rivelati utilissimi per tratteggiare la percezione che l’opinione pubblica aveva di un fenomeno non di rado connotato da dinamiche conflittuali poco apprezzate oltre il Vallo di Adriano. Va anche detto che ormai la letteratura sul calcio scozzese inizia ad essere sufficientemente corposa sebbene – a differenza di quanto si ha ad esempio in Inghilterra – ancora troppo sbilanciata a favore dell’aspetto puramente sportivo. La voce delle gradinate, per così dire, fatica a trovare spazio e solamente quattro volumi sono stati pubblicati fino ad ora sul tema. Se a questo aggiungiamo che il primo libro ad affrontare organicamente il tema è uscito in Italia ed è appunto Il Ruggito di Hampden (gli altri sono tutti diari autobiografici che raccontano le esperienze di singoli tifosi) ci rendiamo conto che il lavoro da fare anche a Glasgow e dintorni è ancora molto.
A tutto questo si sono poi aggiunte la scrematura e la selezione di una discreta mole di materiale accumulato nel corso dei miei viaggi al seguito della Nazionale sia a Glasgow che nelle trasferte vere e proprie, al punto che si potrebbe dire che la raccolta di quanto è stato poi utilizzato per la stesura del libro è iniziata nel lontano 2000. Come accennato in precedenza, ho sempre avuto un occhio di riguardo per gli aspetti legati alla “fans culture” quindi fin dalle mie prime visite ho riportato a casa riviste e fanzine che veicolavano il punto di vista dei tifosi più che quello degli addetti ai lavori. Per molti versi è stato un piacere aprire vecchi scatoloni e rileggere sulle pagine di Haggis Supper o The Absolute Game cosa si pensava a cavallo del Millennio di temi ancora oggi molto attuali come il caro-biglietti o il Team GB.
La nomea negativa di “Happy Clappers” ha in parte influenzato lo stile di comportamento del tifo scozzese all’estero? Ne ha almeno in parte colpito l’orgoglio?
Il tema degli “happy clappers” (ovvero quei tifosi disposti ad applaudire la squadra a priori indipendentemente da risultato e prestazione in un – a volte – malinteso senso di lealtà) si è riproposto più volte nel corso della storia e ha inevitabilmente innescato dibattiti anche feroci spesso tracimati sui media più o meno ufficiali. Questo perché il confine tra dimostrazione di incrollabile fedeltà e sostanziale disinteresse per il risultato sul campo è piuttosto labile e rende evidente come per molti il calcio sia davvero “solo un pretesto”. Quello che però viene imputato più spesso in questi casi non è tanto la prospettiva dalla quale si guarda alla partita (del resto seguire la Scozia riveste significati diversi a seconda di come si pone il singolo), quanto il fatto che non di rado la spontaneità del gesto viene meno per il desiderio (più o meno inconscio) di aderire allo stereotipo del tifoso scozzese che ha ormai fatto breccia nell’opinione pubblica. In sostanza per troppi non è più nemmeno pensabile che la tartan army possa voltare le spalle alla squadra o alla Federazione quindi l’applauso deve esserci sempre e comunque anche se i sentimenti sarebbero di scoramento e delusione e una contestazione sarebbe sacrosanta. Una dinamica molto simile si è avuta riguardo un altro tema assai sentito. La volontà di perpetuare agli occhi degli osservatori esterni l’immagine di “tifoseria più corretta del mondo” (ad onor del vero gsancita anche da una serie di riconoscimenti ufficiali come il Fair Play Award del 1992 e il trofeo Per Ludo Fraternitas del 1998) ha portato ad un cambiamento nell’atteggiamento generale che in non pochi casi è apparso forzoso e innaturale. Mentre nel caso degli “happy clappers” si è trattato di un graduale consolidamento di una tendenza già esistente (o meglio, di una sua radicalizzazione), il fair play fin dal principio si è connotato come un vero e proprio esperimento studiato a tavolino. Ricordiamo che ancora nel 1977 un deputato inglese aveva definito la Scozia “a nation of hooligans” in seguito alle intemperanze di Liverpool e le compagnie aeree e di navigazione bandivano sovente i tifosi dai propri mezzi obbligandoli a sotterfugi di varia natura pur di poter raggiungere la meta (come nel caso, dettagliato nel libro, dei “Summerston Young Farmers”). Al giorno d’oggi, invece, ogni comportamento sopra le righe viene immediatamente sanzionato attraverso una opera di costante “self policing”.
Questo processo ha visto la luce all’inizio degli anni Ottanta quando la base attiva, preoccupata del rischio di vedere abbandonato l’Home Championship per le violenze che immancabilmente avvenivano in occasione delle partite, ha letteralmente imposto agli “occasionali” una sorta di codice di comportamento. Se questa opera di “pedagogia calcistica” ha inizialmente avuto come palcoscenico le trasferte europee dove era più semplice controllare e isolare chi usciva dal seminato, in una fase successiva l’assenza di conflittualità ha preso piede e si è diffusa capillarmente fino a divenire uno dei tratti caratteristici della tartan army. Nulla di sbagliato si potrebbe dire, se non fosse che per tenere fede a tale nomea si sono avute situazioni paradossali come durante la trasferta di Kiev del 2006 quando, davanti ad un attacco da parte di hooligans ucraini, si è preferito lasciare alcuni tifosi in balia degli aggressori proprio per evitare che una eventuale energica autodifesa andasse a macchiare la propria reputazione non violenta.
Quindi senza dubbio il comportamento della tifoseria (all’estero o ad Hampden) è stato in misura non trascurabile determinato da una sorta di inconscia autocostrizione. Oggi la prospettiva è leggermente mutata grazie anche ad un parziale ricambio generazionale, ma al momento dubito che nuove tendenze riusciranno ad imporsi nel breve termine.
Credi che ci siano stati più mutamenti significativi nell’ atteggiamento del tifo scozzese durante gli anni d’oro dal 1974 al 1990 o durante quelli buoni dal 1990 ai nostri giorni?
Dal punto di vista “qualitativo” direi che il ventennio compreso tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà dei Novanta rimane particolarmente significativo e per molti versi ineguagliato: è qui che, a tutti gli effetti, si è formata una vera e propria sottocultura legata alla Nazionale e si è definito un certo modo di seguire la squadra che ancora oggi fa da metro di paragone. Nonostante fosse un fenomeno che, paradossalmente, coinvolgeva un numero relativamente limitato di tifosi rispetto ad oggi, l’impatto sull’immaginario collettivo è stato profondissimo e gli eventi che hanno circondato Wembley ’77 o Argentina ’78 – solo per citare due tra i casi più conosciuti – continuano ad essere considerati come l’apice della parabola. Di sicuro un velo di romanticismo e il fascino nostalgico dei “bei tempi andati” contribuiscono a sfumare i contorni e a conferire a questi momenti un’aura quasi leggendaria (incentivata dalla inedita convergenza con i coevi successi sportivi), ma è difficile negare che raggiungere Cordoba via terra attraversando l’intero Sud America in un’epoca in cui persino le autostrade erano considerate un lusso sia una impresa dai tratti epici. Va tenuto presente che prima del 1978 le trasferte sul continente (pur con le dovute eccezioni, come Amburgo nel 1969 o il Mondiale del 1974) erano praticamente disertate ed è la generazione del post-Argentina a far fare il salto di qualità alla tifoseria inaugurando la tradizione di seguire davvero ovunque la squadra al di là dell’importanza della partita e indipendentemente dalla distanza. Lo testimoniano bene ad esempio i casi di Vienna 1978 e Oslo 1979 dove arrivano centinaia di tifosi che si sono sobbarcati giorni interi di viaggio pur di essere presenti. Giusto per rendere meglio l’idea, nel caso della capitale austriaca parliamo di autostop fino a Londra e da lì 24 ore di treno…
Al tempo stesso, non avendo a che fare con un fenomeno statico, le evoluzioni che questo ha attraversato in periodi successivi rimangono pur sempre interessanti e pregne di significati anche culturali. L’emergere, ad esempio, di una dimensione fortemente ludica e goliardica attorno alla prima metà degli anni Novanta, per quanto non così egemone come si tende a credere, non può essere sottovalutato, non fosse altro per il fatto di aver definito i confini entro i quali ci si aspetta che la tartan army si muova al giorno d’oggi. Le trasferte nelle repubbliche baltiche appena resesi indipendenti ne sono un chiaro esempio, al punto da essere usate addirittura come sfondo del primo romanzo ambientato nel mondo del tifo (“One Team in Tallinn” di Kevin Donnelly) proprio in virtù del loro carattere di spartiacque. In quel particolare momento storico essere un “membro della tartan army” voleva dire intendere la vita stessa – e non solo la partita – in un certo modo: scanzonato, irriverente e calciocentrico. Uno stile di vita a sé stante, appunto, tanto che personalmente lo inserisco a pieno titolo nell’alveo delle sottoculture.
I decenni successivi (e in particolare i nostri giorni) non hanno potuto vantare momenti di rottura paragonabili, al netto ovviamente delle singole partite con numeri particolarmente corposi al seguito. E questo non tanto per una letargia della tartan army in sé, quanto per il cambiamento graduale che ha portato le gradinate britanniche a perdere il carattere di avanguardia culturale che per tanti anni hanno ricoperto.
Antonello Cattani ha intitolato un suo libro sulla passione per la Scozia “Ti amerei anche se vincessi”: è un po’ questo lo spirito fiero e goliardico che accompagna la Tartan Army?
Non direi. Nei tanti anni di frequentazione di Hampden Park non ho mai riscontrato alcun autocompiacimento nelle sconfitte, soprattutto se queste si intendono come filtro che lascia sul campo solo i “veri” tifosi e elimina i “fair weather fans” inevitabilmente attratti dai momenti positivi.
Piuttosto quello che si nota è la presenza di uno zoccolo duro, anche significativo quantitativamente, che segue la squadra indipendentemente dal risultato per una serie di motivazioni che vanno dall’amore incondizionato per questi colori al sentimento patriottico e identitario passando per la dimensione squisitamente goliardica e ludica già citata in precedenza. Secondo me è questo il punto da prendere maggiormente in considerazione per cercare di interpretare un fenomeno ampio e ricco di sfaccettature come questo. Perché è importante sottolineare che non siamo di fronte ad un insieme monolitico fatto di orde in kilt e glengarry con una passione smodata per l’alcol. Credere che solo questa immagine rappresenti effettivamente il seguito della Nazionale vuol dire fare torto alle numerose altre prospettive esistenti. E, soprattutto, significa cogliere poco delle dinamiche culturali di quello che a tutti gli effetti è uno specchio della società scozzese. Per rimanere al campo dell’estetica, molti dei tifosi di più lunga militanza non apparirebbero tali all’analisi superficiale di chi guarda alla tartan army attraverso gli stereotipi dominanti (soprattutto all’estero) proprio perché non ricalcano questa idea del tifoso Scozzese quale ambasciatore ambulante di una Scottishness culturale e folklorica da rendere esplicita sempre e comunque. Non credo che esista un modo più corretto di altri di seguire la Scozia, anche se ovviamente io per primo ho una predilezione per un certo approccio, piuttosto sono convinto che siano diversi tasselli tutti con la propriaimportanza proprio perché riflettono il mosaico del Paese stesso.
A tuo parere le “invasioni” londinesi per il British Home Championship rappresenta la versione più pura e passionale della tifo scozzese?
Se per “più pura e passionale” intendiamo quella che è stata in grado di intersecare in maniera più incisiva anche ambienti extra-sportivi, direi di sì.
I “pellegrinaggi” verso Londra, infatti, hanno rappresentato per decenni più un fenomeno sociale che non sportivo al punto da poter essere considerati dei veri e propri riti collettivi trasversali anche alle classi di appartenenza, nonostante nella grande maggioranza si trattasse della celebrazione di quella cultura maschile e working class che stava venendo erosa dai cambiamenti in atto nel corso della seconda metà del secolo. Addirittura secondo alcuni autori si può inquadrare Wembley entro il perimetro di quei riti di passaggio all’età adulta (reali o semplicemente simbolici) che caratterizzano tutte le culture. Per molti giovani (categoria ancora di non semplice definizione) la lunga trasferta verso sud rappresentava una sorta di esame di maturità per essere ammessi agli ambienti dei “grandi”.
A questi aspetti più spiccatamente sociali va poi aggiunta la fortissima carica identitaria che accompagnava la presenza in terra nemica e che ne faceva a tutti gli effetti un momento di liberatoria rivendicazione della propria specificità etnica e culturale che assai spesso risultava invece precluso in altri contesti. Non è un caso che in determinate fasi storiche le propaggini più organizzate del nazionalismo politico abbiano sfruttato l’occasione per fare opera di proselitismo. Quindi senza dubbio sì, se parliamo di tifo scozzese in senso lato, l’Home Championship ne è forse la summa e a tutti gli effetti Wembley costituisce la pietra su cui si è edificata la “chiesa” della tartan army. Ma non è ovviamente l’unica. Anzi, si può dire che altri momenti hanno rivestito una importanza pari se non maggiore se ci riferiamo appunto non tanto alla massa del tifoso “generalista” quanto alla realtà più ristretta che poi costituisce l’ossatura della tifoseria propriamente detta. A tal proposito le trasferte sul Continente dei primi anni Ottanta (che obbligavano a interi giorni di viaggio nel corso dei quali si cementava un invidiabile spirito di corpo) e quelle già menzionate sul Baltico del decennio successivo (quando la dimensione ludica si è saldata con lo spirito di scoperta di realtà a tutti gli effetti ancora inesplorate) sono forse quelle che più hanno definito l’autocoscienza dalla tifoseria attuale.
La componente religiosa e l’atavica contrapposizione tra protestanti e cattolici ha in qualche modo contaminato lo spirito del tifo della nazionale?
Direi di no. La Nazionale scozzese, per una serie di motivazioni che ho cercato di
analizzare nel libro, non è attraversata dalle linee di frattura etnico-religiose (anche se
sarebbe più appropriato definirle etnico-culturalI) che caratterizzano il calcio di club. La
più importante di queste è il fatto che il “contenitore Scozia”, a partire soprattutto dagli
anni ’80, racchiude al suo interno una pletora di diverse componenti del tutto
disinteressate al dualismo citato che quindi tolgono acqua allo stagno della
contrapposizione settaria. Fino agli anni Settanta la situazione era leggermente diversa
in quanto una porzione non trascurabile del pubblico presente alle partite arrivava
direttamente da Ibrox e dintorni portandosi dietro anche il proprio retaggio culturale. Non
che venissero sventolate Union Jack, beninteso (anche se esiste una famosa foto del
Mondiale del 1974 dove effettivamente ne appare una impreziosita dalla scritta
“Scotland”), ma senza dubbio il tema identitario non veniva automaticamente declinato in
chiave indipendentista come invece è più comune oggi. Piuttosto non era così inusuale
che alcuni giocatori del Celtic fossero oggetto di particolare accanimento qualora
l’impegno o la prestazione non fossero considerati all’altezza. Un esempio è la trasferta
a Belfast del 1961 quando entrambi gli schieramenti si uniscono nel dileggio nei
confronti di chi arriva dalla sponda “sbagliata” del Clyde e nel viaggio di ritorno, che
squadra e tifosi condividono sul medesimo traghetto, si rende necessario l’intervento di
Jim Baxter per evitare che la contestazione assuma caratteri più sgradevoli.
Non va comunque dimenticato il fatto che chi settimanalmente frequenta Celtic Park
molto spesso non si riconosce nella Nazionale scozzese e quindi giocoforza l’innesco
viene meno per assenza di una delle due fazioni. Ciò non toglie che in alcuni particolari
momenti questa divisione sia emersa anche nel contesto della Nazionale. Penso alle
partite con la Repubblica d’Irlanda e con l’Irlanda del Nord che ovviamente tendono a
risvegliare le passioni che permeano in profondità la città di Glasgow.
Il luogo comune “tifare per la Scozia e per qualsiasi squadra giochi contro l’Inghilterra” é veritiero ed ha ancora senso ai nostri giorni?
Da un punto di vista meramente sportivo si può affermare che questa attitudine – per quanto stia gradatamente sbiadendo nel calcio globalizzato di oggi – giochi ancora un ruolo non trascurabile nella definizione del perimetro di riferimento del tifoso scozzese, come evidenziato anche dalle dinamiche che hanno caratterizzato i recenti Europei. La frenesia che ha circondato la partita di Wembley prima e la finale poi è stata emblematica di una rivalità ancora capace di far presa sull’immaginario collettivo del pubblico calcistico a nord del Vallo. D’altro canto, se si gratta la superficie e si va oltre i titoli gridati dei tabloid, si comprende come sia una mentalità sempre più marginale in quello zoccolo duro che in questi anni si è sobbarcato l’onere di sostenere la squadra ovunque. Per questo gruppo più ristretto (che poi a mio modo di vedere rappresenta la tifoseria vera e propria) l’orizzonte a cui guardare è assai più vasto della semplice rivalità con i cugini meridionali e l’obiettivo è molto più la qualificazione ai Mondiali o agli Europei piuttosto che il mero primeggiare sull’Inghilterra.
Se poi questo abbia senso o meno non sta ovviamente a me dirlo. Mi limito a fotografare una situazione che sta evolvendo in questa direzione a partire almeno dagli anni Ottanta quando l’Home Championship ha sicuramente chiuso i battenti per effetto dei problemi di ordine pubblico posti dall’esplosione della scena casual, ma anche per il costante calo di interesse nei confronti di una sfida che non sembrava più rappresentare il fulcro della stagione internazionale come in passato. Il gioco, in sostanza, non valeva più la candela, specie se questa era rappresentata dalle mete esotiche cui si poteva avere accesso qualificandosi alle maggiori competizioni internazionali. Con questo non intendo dire che quella con l’auld enemy sia diventata una partita come tutte le altre: non lo è e non lo sarà mai per la dimensione simbolica e culturale che riveste e i cori offensivi e l’antagonismo resteranno sempre. Ma l’idea che a Hampden si viva il calcio quasi solo attraverso il dualismo con gli Inglesi è in larga parte un mito come ho potuto verificare personalmente in più di un’occasione. Ricordo ancora benissimo quando a Graz nel 2005 venni ripreso da alcuni dei vecchi (gente con centinaia di trasferte nel curriculum) per aver cantato “Stand up if you hate England”: mi venne fatto giustamente notare che l’Inghilterra non c’entrava proprio nulla con un’amichevole Austria-Scozia in Stiria.
Se posso aggiungere una sorta di provocazione, oserei quasi dire che la tendenza nel corso degli anni si è rovesciata ed è a Wembley e dintorni che si respira un maggiore spirito di contrapposizione. Storicamente, almeno fino agli anni Ottanta appunto, i tifosi dei Bianchi tendevano a snobbare il confronto risultando costantemente minoranza all’Empire Stadium (per non parlare di Hampden, dove la prima presenza realmente visibile si è avuta solo nel 1985). A partire dall’esplosione della scena casual la musica è cambiata e adesso l’opportunità di spargere sale sulle ferite sportive scozzesi non viene lasciata sfuggire anche per motivazioni squisitamente politiche. Fino a qualche decennio fa sarebbe stato impensabile per gli Scozzesi farsi soverchiare a Celtic Park dai cori
irridenti (“We all voted Yes” o “You’re British till you die”) di un rumorosissimo contingente ospite come avvenuto nel 2014.
Da esperto della questione come credi evolverà il tifo scozzese neo prossimi anni?
È molto difficile rispondere. Il periodo precedente la pandemia aveva visto finalmente l’ingresso sulla scena di numeri crescenti di giovani, alcuni dei quali capaci di non appiattirsi sui canoni estetici dominanti (e, come ampiamente visto, a volte stereotipati) e di trasferire anche ad Hampden le tendenze egemoni sulle gradinate delle squadre di club. Mi riferisco in particolare ad uno stile più sobrio che sembrava segnare una discontinuità anche simbolica rispetto alle precedenti generazioni. Quasi una chiusura del cerchio ed un ritorno a quella che era l’immagine dei tifosi scozzesi negli anni Settanta e Ottanta. Un chiaro esempio, pur tenendo presente la specificità della partita e la vicinanza che senza dubbio ha influito nel permettere anche a persone generalmente ai margini dei gruppi di presenziare, si è avuto in occasione di Inghilterra-Scozia di Euro 2020 quando una percentuale non trascurabile dei tifosi convogliati su Londra rispecchiava in pieno questa tendenza. La mia personale previsione due anni fa era di veder emergere all’orizzonte sangue nuovo che, con l’inevitabile ritiro dalle scene dei più anziani, avrebbe “svecchiato” la tartan army avvicinandola per molti versi alle altre tifoserie britanniche pur mantenendo – è ovvio – una propria specificità. Per intenderci più trainers e meno kilt. Del resto proprio in Scozia sono emerse alcune delle più interessanti novità in fatto di terrace culture con entrambe le componenti dell’Old Firm accompagnate da gruppi che mescolano la tradizione britannica con le influenze continentali.
La pandemia e le relative restrizioni hanno inevitabilmente tarpato le ali a questo sviluppo (non fosse altro per il fatto che per lungo tempo gli stadi sono rimasti chiusi) mutando in maniera sensibile le modalità di partecipazione attiva all’evento sportivo. Temo che questa congiuntura rappresenti il pretesto ideale per accelerare alcune nefaste dinamiche già in atto da tempo.
Parlando proprio in questi giorni con un esponente storico della tifoseria, sulle scene fin dagli anni Settanta, si concordava sul fatto che il futuro del calcio internazionale non appare particolarmente roseo, sotto attacco com’è da parte di televisioni, corporation e leghe più interessate agli introiti garantiti dalle competizioni per club. La polemica scaturita in occasione dei sorteggi della Nations League in merito al numero eccessivo di partite è emblematica: a fronte dell’impennata delle compagini partecipanti alla Champions League o anche solo al campionato italiano stesso, l’attenzione si è concentrata invece su una competizione che influisce solo minimamente sull’equilibrio generale. A questa riflessione non posso non aggiungere l’impressione che, essendo le Nazionali forse l’ultimo bastione identitario rimasto in quello che fino a relativamente poco tempo fa era lo sport identitario per antonomasia, la tendenza a svuotare di contenuti il calcio le identifichi come bersaglio prioritario da colpire per giungere alla sua completa trasformazione da fenomeno sociale a puro intrattenimento scevro di valenze culturali.
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