Intervista: Il Terzino Cannoniere

Massimo Arcidiacono ricorda il grande Giacinto Facchetti in campo e fuori, in un bel libro che è anche un viaggio nella società del periodo connesso, tra criticità, costumi e cambiamenti Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come nasce l’idea del libro e quali finalità si è posto nella sua realizzazione?

Il libro nasce in realtà moltissimo tempo fa. Subito dopo la morte di Facchetti dalla volontà di Nando Dalla Chiesa, al tempo “anima” della casa editrice Melampo. Nando aveva scritto le biografie di Meroni e Picchi, Facchetti ci sembrò un personaggio di uguale forza narrativa e romantica. Però andammo di fretta, uscì una sorta di instant book, poco distribuito e promosso. Lillo Garlisi di Zolfo Editore (erede di Melampo ed ex socio di Dalla Chiesa) adesso mi ha chiesto una nuova edizione, ritenendo un libro su Facchetti una sorta di longseller, io ho accettato a patto di poter rivedere il libro, ampliarlo, aggiungere testimonianze e due nuovi capitoli, più la prefazione di Paolo Condò (una delle firme del giornalismo sportivo e unico italiano a votare per il Pallone d’oro) e una postfazione davvero bella di Carlo Cottarelli, economista di vaglia col cuore nerazzurro.

Possiamo dire che il Facchetti uomo è stato pienamente rappresentato dal Facchetti giocatore?

Io direi che l’uomo e il giocatore siano stati un tutt’uno e che la carriera sportiva sia servita all’uomo a migliorarsi, ad affrancarsi da quell’Italia contadina in cui era nato senza rinnegarla. Quando dico migliorarsi non penso ai soldi, penso anche alla cultura. Facchetti amava leggere di tutto, era amico di scrittore come Giovanni Arpino e di giornalisti come Candido Cannavò.

Lui così integerrimo e costante quale simbolo di epoche di cambiamenti e contestazioni come lo sono stati gli anni’60 e 70: hai mai pensato fosse un controsenso?

No. Anzi, rielaborando il mio lavoro ciò che ha sorpreso anche me è che Facchetti poteva essere utilizzato come testimone – seppure involontario – dei cambiamenti della società italiana. La Grande Inter o Italia-Germania 4-3 non sono pagine della storia del calcio ma della storia nazionale, sono cartine di tornasole dell’Italia in cambiamento, quella del boom e quella della rivoluzione giovanile appena cominciata, dell’Italia che stava per perdere la sua innocenza entrando negli anni di piombo. Per riportare solo un passaggio del libro. Facchetti a un certo punto, nel 78, rinuncia alla nazionale. Sarebbe una notizia importante, è il capitano che ha alzato la Coppa d’Europa, ma passa quasi inosservata, relegata in fondo ai quotidiani e ai notiziari, sono i giorni in cui viene ritrovato il corpo di Aldo Moro.

Quando la sua proposizione offensiva ha permesso di mettere in luce il talento di rifinitori quali Suarez, Corso ed anche Mazzola e quanto, viceversa, ha beneficiato lui stesso di compagni con i piedi buoni?

Io non ho visto giocare la Grande Inter, sono vecchiotto ma non così tanto. So però che Herrera e Brera attribuivano a Facchetti un ruolo fondamentale, erano stregati dalle sue qualità. Ma tra loro Herrera e Brera si detestavano.

Senza l’interpretazione moderna ed offensiva avremmo avuto negli anni successivi altri fenomeni come Cabrini e Maldini? È stato tatticamente e tecnicamente un apripista?

L’avremmo avuta certo. A mio parere Cabrini è frutto della svolta data al calcio dagli olandesi e Maldini lo è della genialità calcistica di Sacchi (che non a caso di olandesi ne aveva ancora tre in squadra…). Facchetti, però, rimane un pioniere. E’ stato un apripista senz’altro. C’è online facilmente reperibile una gustosa intervista a Giacinto di Paolo Fraiese sull’argomento. E un’altra ben più vecchia di Antonio Ghirelli. C’è da dire che all’inizio quello spilungone che si lanciava verso l’aria avversaria non fu ben compreso da San Siro, il primo anno fu durissimo. 

Il libro mi ha comunicato la sensazione che Facchetti in nazionale abbia sempre dovuto dimostrare qualcosa, quasi fosse sempre sott’esame: è corretto?

Facchetti era il capitano ed è ancora tra i primi dieci per presenze in nazionale: a quel tempo mica si giocavano Mondiali a 32 squadre, Europei lunghi un mese e Nations League varie. Non direi, quindi. Non andava molto d’accordo con Fabbri, questo è vero e nel finale di carriera forse si sarebbe dovuto mettere da parte prima, ma c’è da dire che Arpino nel suo Azzurro Tenebra (un grande libro che racconta la debacle al Mondiale del ’74) ne fa un eroe quasi epico, da dramma greco.

Cosa pensa del luogo comune che lo ha giudicato troppo buono per fare il dirigente nel complicato e molte volte sporco contesto del calcio italiano?

Credo che non sia un luogo comune. Credo che certe cose o le sai fare oppure se ti trovi a farci i conti rischi di pagarla cara. Alla sua morte nel 2006 Facchetti fu salutato come un mito, dopo – quando non poteva più dire la sua – ha cominciato a soffiare un venticello… e adesso mi ha stupito molto la ritrosia di alcuni. C’è chi mi ha detto: come ti è venuto in mente di fare un libro di Facchetti, non sei neppure interista? Proprio per questo, è la risposta. Mi piacciono le storie in qualche modo irrisolte.

Che eredità morale ci ha lasciato Giacinto Facchetti?

Beh, non esageriamo. E’ stato un calciatore che, però, ha attraversato mezzo secolo di società italiana in qualche modo incarnandone i tratti essenziali: il dopoguerra e la voglia di riscatto, l’Italia degli oratori e delle facce pulite, povera, agricola, che poco alla volta si industrializza e vive anni spensierati: il boom che coincide con la grande Inter, il grande Milan, la vittoria all’Europeo, da qui comincia la fase del disincanto, quella dei primi forti contrasti di classe e generazionali e poi la fase edonista con i calciatori che a poco a poco diventano star. In questa fase è un po’ fuori dai giochi, torna infine con Moratti quando la Milano da bere è stata già travolta da Mani Pulite. Quell’Inter si reputa fiera avversaria non solo del sistema Moggi ma anche, non bisogna dimenticarlo, del Milan berlusconiano: io lo vedo anche qui testimone involontario dell’’Italia spaccata in due di allora, pro e contro Berlusconi. Infine Calciopoli, un capitolo doloroso che però era la spia della necessità di un cambiamento per il calcio italiano che, forse, recependo maggiormente le idee del Facchetti-dirigente si sarebbe sottratto alla crisi d’identità in cui ancora si trova più velocemente. 

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