Intervista: Dall’Ara. Renato Sono Io

Il bel libro di Marco Tarozzi ripercorre la vita di Renato Dall’Ara mettendone in evidenza le peculiarità e la spiccata personalità, attraverso interessanti aneddoti e precise ricostruzioni. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Leggendo il libro ho colto la volontà di riabilitare la figura di Dall’Ara da maldicenze e luoghi comuni: è questo uno degli obiettivi del libro?

Certamente. Negli anni, di quello che è stato il più grande presidente della storia del Bologna, e uno dei più importanti dirigenti del calcio italiano, è rimasta un’aneddotica spesso caricaturale, legata al suo uso “spericolato” dei motti latini, tendente a evidenziare la sua preparazione culturale carente. Invece Dall’Ara fu semplicemente un uomo dei suoi tempi, che ancora ragazzo aveva scelto di farsi strada nella vita sfruttando il suo grande acume imprenditoriale, capace di colpi di genio sul lavoro e di una gestione accorta ma sempre appassionata della società. Il Bologna, per Renato Dall’Ara, doveva stare ai vertici del calcio italiano, e il grande lavoro di ricostruzione attuato negli anni Cinquanta, che portarono alla conquista dell’ultimo scudetto, dimostrano il suo grande impegno in questo senso. Un impegno che ha addirittura pagato con la sua stessa vita.

Avendo attraversato tre decenni di calcio italiano è giusto ritenerlo un personaggio che ha saputo adattarsi ai nuovi scenari calcistici e sociali?

C’è forse da dividere il suo periodo alla guida del Bologna, schematicamente, in due periodi. Prima della seconda guerra mondiale, la società e la squadra erano molto più potenti che dopo la fine del conflitto. Gli anni Cinquanta hanno portato anche momenti difficili, con la squadra che in un paio di occasioni ha rischiato molto dal punto di vista della classifica, e la piazza insoddisfatta che arrivò a contestare lo stesso presidente. Dall’Ara si trovò a competere con un petroliere (Moratti), con la famiglia Agnelli, con l’ascesa delle milanesi. Per stare al passo, seppe affinare le sue capacità di riconoscere il talento, seguendo personalmente le trattative di acquisti che riteneva fondamentali (Fogli, uomo determinante nell’equilibrio della squadra campione d’Italia, Haller, Nielsen). Puntava sui giovani e arrivava prima di altri a chiudere trattative, ed ebbe la pazienza di ricostruire aggiungendo un tassello alla volta, fino a riportare il Bologna ad alta quota.

C’è chi crede che il suo ingresso nel Bologna sia stato favorito o imposto dai gerarchi fascisti: c’è stata questa ingerenza? Come ha gestito la cosa Dall’Ara nel periodo e negli anni successivi?

Senz’altro l’addio al Bologna del presidente Bonaveri, predecessore di Dall’Ara, fu dovuto al suo legame stretto con Leandro Arpinati, caduto in disgrazia tra i vertici del fascismo. Ma va ricordato che la prima persona a cui si rivolse la società fu Alberto Buriani, influente figura dello sport bolognese e nazionale, già presidente della Sef Virtus, della Federatletica e della Federazione di Ginnastica. Fu lui, declinando l’invito,
a fare il nome di “un imprenditore giovane e appassionato, certamente adatto al ruolo e tifosissimo rossoblù”. E va ricordato che Dall’Ara fu per un lungo periodo membro di una commissione direttiva composta di tre elementi, anche se molto presto tutto quello che riguardava il Bologna prese a passare dalle sue mani. Alla fine della guerra, poi, fu nuovamente scelto all’unanimità, e confermato alla guida della società, durante una Assemblea elettiva composta da tutti gli attori anche politici che avevano contribuito a liberare la città.

A tal proposito il presidente del Bologna si è anche dimostrato un esperto di calcio e valutatore di talento: è corretto definirlo così?

Dall’Ara non era a digiuno di calcio nemmeno quando prese le redini del Bologna nel 1934. Era un tifoso appassionato, che non perdeva una partita casalinga e talvolta seguiva la squadra anche in trasferta. Magari non un tecnico, ma il suo acume imprenditoriale seppe nel tempo riversarlo anche nelle cose di calcio, anche grazie ai consigli di chi gli stava vicino. La ricostruzione del Bologna negli anni Cinquanta è fatta dell’acquisto di giovanissimi talenti (Pavinato, Tumburus, Pascutti, Fogli, Perani) che avrebbero costituito l’ossatura della squadra campione d’Italia nel 1964. Acquisti su cui arrivava sempre prima degli altri, come anche nel caso dell’arrivo di Nielsen e della corte serrata fatta a Haller, il giocatore che probabilmente amò di più. E non va dimenticato che il presidente fu tra gli ideatori e motori propulsivi del primo calciomercato.

Qual è stata la sua più grande intuizione?

In assoluto, il fatto di rendersi conto che le sorti di una società dipendevano anche dalla sua buona salute economica. Rischiando a volte di apparire “avaro”, seppe invece dedicare generosamente tanto delle sue forze anche economiche al Bologna, ma sempre con la mentalità dell’uomo d’affari dei primi del Novecento: mai sperperare, cercando di tenere la barra dritta. Detto dei grandi giocatori che seppe scoprire, una grande intuizione per arrivare allo scudetto del 1964, il meno prevedibile di tutti, fu la scelta di Fulvio Bernardini come allenatore. Dall’Ara non amava Fuffo, i due si punzecchiarono spesso anche a mezzo stampa, ma di fondo seppero rispettarsi, e il presidente capì che quello era l’uomo giusto per riportare il Bologna ai vertici.

C’è più la sua mano e la sua mentalità nel Bologna vincente degli anni’30 o in quello vincitore del campionato nel 1964?

La sua mano si sente in entrambi i periodi. Ma, come ho detto, ritengo che il vero capolavoro sia stato riportare, con pazienza ed un progetto pluriennale, il Bologna allo scudetto nel 1964, quando le potenze del calcio erano ormai altre. Un trionfo che il destino non gli permise di godersi, nemmeno di vedere: se ne andò quattro giorni prima dello spareggio dell’Olimpico.

A tuo parere ha mai avuto la tentazione di dimettersi dalla carica, magari negli anni’50 o nel periodo difficile precedente alla sua morte?

Credo di no, anche se anni di contestazioni lo ferirono molto. La tifoseria, anche quella “ufficiale” e organizzata, gli chiese conto della mediocrità dell’ex “squadrone che tremare il mondo fa” negli anni Cinquanta, e a più riprese gli consigliò di farsi da parte.
Va ricordato che le devastazioni della guerra avevano fortemente colpito proprio la sua attività (la sede della maglieria era a due passi dalla stazione, obiettivo sensibile dei bombardamenti che distrussero la città). Dall’Ara dovette pensare al futuro della sua azienda, che impiegava oltre 250 magliaie, ma non venne mai meno al suo impegno per il Bologna, anche se per ritornare in alto gli occorse parecchio tempo.

Cosa penserebbe Dall’Ara della deriva del nostro calcio attuale?

Probabilmente ci direbbe: “cari miei, così non si può mica più andare avanti…” La sua mentalità era quella solida e costruttiva degli imprenditori del secolo scorso: un uomo che si era fatto da sé, compensando un indubbio gap culturale con un acume fuori della norma ed una volontà ferrea. Uno che ha giganteggiato nel calcio italiano, al punto da meritare nel 2017 un posto nella Hall of Fame federale.
Oggi una “costruzione” così paziente e vincente, che assomiglia a quella del Bologna dello spareggio dell’Olimpico, potrebbe essere quella di Percassi all’Atalanta. Che in effetti sta riaccendendo il sogno di poter rivedere una squadra “fuori dal solito giro” ai vertici del nostro calcio.

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