Intervista a Mauro Grimaldi

Ciao Mauro e bentornato su Bibliocalcio. Dopo il successo del tuo libro intitolato: “Storia d’Italia, del calcio e della Nazionale. Uomini, fatti, aneddoti (1850-1949)” pubblicato lo scorso anno, hai dato alle stampe un secondo volume per proseguire il tuo percorso narrativo. Questa volta hai scelto di raccontare il periodo che va dal 1950 fino al 1994. Quale criterio hai utilizzato per la tua divisione temporale?

Esiste, secondo me, una linea di confine tra diversi modelli di calcio che dividerei in tre momenti storici. C’è il calcio romantico, quello degli albori, della sua funzione legata ad una identità nazionale, di collante anche nei momenti più difficili che arriva fino alla fine degli anni ‘40, dove la tragedia di Superga funge da spartiacque. C’è quello di un calcio ormai affermato che tracima negli interessi dei grandi imprenditori, dei grandi capitali che iniziano a fare la differenza, dei primi acquisti milionari, degli interessi economici che portano tra l’altro a delineare anche lo status dei calciatori per mettere ordine in questo nuovo modello che coincide con la fine degli anni ‘90. Poi c’è la grande rivoluzione che segue con la sentenza Bosman del 1995 che cambia radicalmente scenario e apre ad un calcio più globalizzato, quasi a livello industriale. Il calcio spettacolo, legato ai grandi sponsor e soprattutto ai diritti televisivi che hanno modificato anche il modo di rapportarsi ai campionati. Un calcio quasi ossessivo, spalmato su tutta la settimana, senza tregua. Un calcio dove dominio dei procuratori sportivi è diventato un grave problema, dove i capitali stranieri – che hanno portato ad allargare sempre di più la forbice tra club ricchi e club poveri – hanno quasi annientato l’identità territoriale. Un quadro che a ben vedere coincide con la nostra storia, la storia d’Italia. Questi volumi, tra l’altro, sono rivolti anche ad un pubblico giovane, dove il pallone diventa strumento didattico e voce narrante della nostra storia, un mezzo con cui dovrebbe essere più facile penetrare nell’interesse dei ragazzi, che unito alla mostra che sto portando avanti, Un secolo di azzurro, unisce alla narrazione il contatto con gli oggetti, il tatto che resta uno dei principali conduttori della memoria. A breve inizierò un modulo di dieci lezioni con alcuni licei sportivi. Nel primo incontro interlocutorio i ragazzi hanno dimostrato grande interesse per questo tipo di approccio e i docenti sono entusiasti. Quindi un calcio a servizio della cultura, delle nostre radici.

Dopo i primi passi pioneristici il calcio italiano ha avuto un crescendo vertiginoso tanto da portare gli Azzurri a conquistare due titoli mondiali, un oro olimpico e due Coppe Internazionali. In questa seconda fase invece sono tanti gli alti e bassi; hai raccontato la vittoria dell’Europeo nel ’68 e quella del Mondiale del ’70, ma anche la disfatta di Belfast, la Corea, la semifinale di Italia ’90. Dal punto di vista narrativo, tenendo presente l’adagio “Se la vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana”, è più facile raccontare una vittoria o una sconfitta?

Credo che raccontare una sconfitta non sia semplice ma sicuramente più interessante perché consente di analizzare le cause che hanno portato a fallire un obiettivo e quindi ti aiutano a costruire le contromisure per arrivare alla vittoria, Manca, qui da noi, la cultura della sconfitta, senza sapere che è alla base di ogni vittoria. La storia, la nostra storia, insegna che l’Italia ha conseguito vittorie prestigiose reagendo a importanti sconfitte, non solo sul piano sportivo. Mi spiego. Nel 1968 abbiamo conquistato un Titolo europeo dopo essere usciti da un periodo estremamente critico per il nostro calcio iniziato con la mancata qualificazione ai Mondiali del 1958 e alle magre figure che abbiamo rimediato in Cile nel 1962 e in Inghilterra nel 1966. La sconfitta con la Corea del Nord è stato il punto più basso del nostro calcio che ha costretto la Federazione a cambiare rotta e a “pescare” i propri tecnici in casa, a Coverciano, ad iniziare da Valcareggi, per proseguire con Bearzot e Vicini. Nel 1982 venivamo da una situazione devastante per il nostro calcio con lo scandalo delle scommesse che aveva portato alla squalifica di grandi calciatori, tra cui Paolo Rossi, una sconfitta pesante sul piano dell’immagine e di quei valori che il calcio doveva rappresentare. Questa vittoria è andata oltre al risultato sportivo, ha restituito all’Italia la sua dignità. Idem nel 2006, con lo scandalo che ha colpito la Juve a pochi mesi dal Mondiale, che aveva messo in discussione persino il ruolo di Lippi. Una federazione commissariata, i vertici dell’Aia azzerati, interrogazioni parlamentari, giornali di tutto il mondo che ci attaccavano, la nostra credibilità a zero. Anche in questo caso siamo riusciti a sollevarci. Per non parlare di quest’ultimo Titolo europeo con una Italia in ginocchio, sferzata da questa grave pandemia, dalla crisi economica e questa vittoria ha ridato forza e vigore al paese. È andata oltre al mero evento sportivo ridando fiducia alla gente e la forza di guardare avanti con più ottimismo.

In copertina hai fissato con l’editore l’immagine dell’urlo di Tardelli, che ti firma la prefazione, al Mondiale del 1982. Possiamo affermare che quello, nonostante i tanti successi degli Azzurri, è il più bello? E se pensi sia così spiegaci anche il perché.

La corsa di Tardelli è la vera immagine iconica di questo Mondiale e di questo periodo storico. La gioia, la rabbia, la voglia di riscatto di quell’Italia le ritroviamo tutte in questa immagine che è la perfetta sintesi di questa vittoria. Ricordiamoci di quello che aveva subito questa Nazionale nel girone di qualificazione. Gli insulti a Bearzot, il silenzio stampa, il massacro mediatico nei confronti di Paolo Rossi. È vero quello che hai detto, quando si perde si perde da soli, quando si vince c’è la ressa. Il fatto che rivedere quella corsa verso l’infinito di Tardelli, questo urlo quasi innaturale faccia venire ancora la pelle d’oca, ti metta i brividi, ti faccia emozionare è la migliore risposta all’iconicità di questo momento.

Questo tuo progetto si basa su un ventennale lavoro di ricerca, lavoro che ha avuto modo di trovare uno sfogo non solo col volume dello scorso anno ma anche con altre precedenti pubblicazioni. Nell’approcciarti a quanto scritto e studiato precedentemente hai avuto modo di rivedere una tua posizione o un tuo particolare convincimento riguardo a un dato avvenimento?

Ho trovato molto interessante la figura di Leandro Arpinati – è in fase di pubblicazione un saggio molto approfondito – e le grandi riforme del fascismo che hanno cambiato il modo in intendere il calcio. Inizialmente ero condizionato da luoghi comuni che hanno sempre accompagnato questo complesso periodo storico ma credo che chiunque si avvicini alla storia deve cercare di interpretarla oggettivamente, senza farsi condizionare da preconcetti, ideologie politiche e cose simili. La storia è la storia e credo sia dovere di chi scrive trasferirla al lettore in un modo corretto, trasferendo la fotografia reale degli avvenimenti.

Il tuo racconto della storia della Nazionale italiana è intrecciato a quello storico-sociale della nostra Repubblica. C’è a tu parere un momento storico che più di altri ha influenzato le vicende calcistiche italiane?

Il Novecento è stato interessato da repentini cambiamenti sociali e politici, forse più di ogni altro secolo. Due guerre Mondiali, tre diversi assetti istituzionali, dalla Monarchia alla dittatura fino alla Repubblica, da profonde crisi economiche e sociali che hanno cambiamo modello e costumi degli italiani. Il calcio, in tutto questo, è parte integrante e ha mutuato, da questi cambiamenti, le diverse peculiarità. Non abbiamo avuto un modello di calcio unico ma un calcio che ha sempre saputo adattarsi alle diverse realtà storiche, come nel fascismo, dove è diventato strumentale alla propaganda, al nuovo modello nazionalista, alla formazione del popolo, alla veicolazione dell’ideologia. Se poi vogliamo restringere il campo, trovo che la vera rivoluzione c’è stata nel 1995 con la sentenza Bosman. Da allora il calcio, nel bene e nel male, ha subito una forte accelerazione con cui non siamo ancora riusciti del tutto ad allinearci. Le grandi riforme di cui si parla sono figlie delle discrasie di questo ultimo ventennio dove si sente la necessità di riequilibrare un modello che rischia di degenerare, perché il calcio non è solo quello professionistico, dei grandi club ma esiste perché c’è una base solida di migliaia di società e milioni di persone che ogni giorno, per pura passione scendono nei campetti di calcio e tengono viva la passione e l’interesse per questo sport. Non possono essere abbandonati a sé stessi e quindi bisogna iniziare a ragionare su una distribuzione diversa delle risorse che consenta a questa grande platea di sopravvivere. Non è banale e questo deve rappresentare uno dei principali obiettivi del futuro, quello di un calcio sostenibile ed equilibrato.

Il tuo stile narrativo si discosta molto da quello rigido del saggio storico, nel libro hai dato molto spazio alla storiografia senza però, ad esempio, lasciare una traccia bibliografica per eventuali approfondimenti. A cosa si deve questa tua scelta?

La mia idea è quella di arrivare a tutti, non solo agli appassionati. La mia è una narrazione semplice, diretta, comprensibile. Vorrei che il racconto fosse come un grande romanzo, come lo è di fatto la storia del calcio. Un qualcosa che coinvolga il lettore a prescindere dall’età. Come ho anticipato l’ho sperimentato con i ragazzi del liceo, con cui è stato semplice confrontarmi con questo linguaggio, coinvolgerli, stimolarli. Chiaramente ho accennato alle fonti storiografiche e non potevo fare diversamente, ma non ho voluto, intenzionalmente, dare una impostazione del saggio storico perché in realtà non lo è se lo vediamo da questo punto di vista. Che poi il contenuto sia rigoroso e documentato questo è dovuto per onestà intellettuale.

Raccontando fatti e avvenimenti della storia recente avrai sicuramente attinto ai tuoi ricordi e alla tua sensibilità, è un vantaggio questo oppure si rischia di non riuscire a dare al lettore una visione oggettiva di quanto accaduto?

Avere avuto la fortuna di aver vissuto in qualche modo direttamente alcuni eventi dalla fine degli anni ‘80 mi ha aiutato a capire alcune dinamiche e approfondire certi temi. Le cose, spesso, non sono mai come appaiono e osservarle dall’interno aiuta la narrazione. Diciamo che è un valore aggiunto alla narrazione che amplia la visione dello scenario. Vi faccio un esempio banale di come vivendo da quest’altra parte del muro puoi avere una percezione diversa. Nel 1982 – non mi interessavo ancora di calcio – lavoravo con Giovanni Spadolini allora presidente del Consiglio. Per una serie di questioni politiche orchestrate da Craxi, il Governo Spadolini era prossimo a cadere e la crisi era già in atto. Con la vittoria del Mondiale la crisi rientrò velocemente perché nessuno voleva assumersi la responsabilità di far cadere il Governo della Nazionale campione del Mondo e quindi durammo qualche altro mese. Ci sono poi i Mondiali del ‘90, ‘94 e ‘98 che ho seguito da vicino e che mi hanno aiutato a capire certe dinamiche e a trasferirle nella mia narrazione.

Ultimissima domanda, hai già anticipato su Bibliocalcio che a questo seguirà un terzo e ultimo volume che chiuderà la trilogia. Innanzitutto ti chiedo se ab initio la tua idea era quella di una trilogia o se invece è nata cammin facendo, infine volevo sapere quando pensi che sarà pronto, prima o magari dopo il Mondiale del 2022, in modo da raccontare, si spera, un ultimo successo italiano?

Il progetto è stato sempre quello di una trilogia che aveva come dead line EURO 2020 e nella sfortuna la pandemia è stata utile avendo prorogato l’Europeo e dandomi i tempi giusti necessari a rispettare il progetto. Anche la vittoria sembra essere la giusta conclusione per questa trilogia. Il terzo volume sarà in libreria entro giugno, mentre per novembre 2022, a ridosso del Mondiale, uscirà un cofanetto con l’opera completa. Poi spero, dopo il Mondiale, di raccontare un’altra bella storia! Vi ringrazio, anche per il contributo culturale e di divulgazione che date a questo magnifico sport. Sono iniziative necessarie e importanti che dovrebbero essere stimolate sempre di più.

Grazie Mauro, è stata una piacevolissima chiacchierata; in bocca al lupo per i tuoi progetti futuri, che ovviamente seguiremo sempre con la massima attenzione.

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