Un libro davvero molto bello quello di Glezös, che ripercorre la periferia milanese degli anni’70, coniugando il calcio al tessuto sociale del periodo. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Nel complimentarmi per il libro ti chiedo cosa ti ha spinto a ricordare e divulgare la Milano degli anni ’70.
Ti ringrazio per i complimenti. L’ idea l’ avevo già da un po’, e si è concretizzata sulla scia del libro che avevo scritto sulle origini di Vasco Rossi (‘Alla ricerca del Vasco perduto’, Indiscreto Editore 2012). Le immagini di un’ adolescenza vissuta in viale Ungheria tra calcio, musica e storie di quartiere tra la fine dei non troppo meravigliosi anni ’60 e l’ inizio dei cruenti ’70 avevano solo bisogno del trait d’ union di un titolo adeguato. Poi il mio caro amico bolognese Emiliano Vernocchi – che commercia in libri, anche piuttosto rari – mi regala il copione di ‘Rocco e i suoi fratelli’ di Luchino Visconti, e il puzzle è andato a posto da solo.
Tensioni politiche e problematiche sociali sono centrali nel libro. Lo sono state anche nella vita dei ragazzini del periodo?
Senza ombra di dubbio: anche se può sembrare sorprendente, più le prime delle seconde. Devi tenere presente che tra la fine degli anni ’60 e l’ inizio dei ’70 parecchi ex bambini crescevano in famiglie con una forte connotazione a sinistra, spesso anche estrema. Di conseguenza – volenti o no – le problematiche del quartiere amplificavano un’ intensità sociale e politica che toccava tutti, anche chi viveva in un contesto familiare lontano dalle fazioni.
La figura di Walter Zenga è stata più quella di un mito irraggiungibile o un punto di riferimento?
A noi del Viale Walter non è mai parso un mito irraggiungibile, semmai un qualcosa di cui andare fieri e un’ anomalia al tempo stesso. Venire da lì era considerato un handicap da noi per primi, e in un’ epoca in cui praticamente nessuno usava la definizione “punto di riferimento” è ovvio che tutti in quartiere guardassero a lui con l’ ammirazione che riservi a “uno dei nostri che ce l’ ha fatta”. L’ anomalia era la sensazione straniante nel vedere una faccia familiare di viale Ungheria in cima al mondo, caso rimasto unico.
Nel libro parli di un San Siro più a dimensione d’ uomo, dove era possibile muoversi a piacimento. Quanto stride questo contesto con quello attuale?
Beh, dobbiamo considerare che San Siro ha avuto tre settori (tribuna, distinti e gradinata, a prezzi abbordabilissimi) fino ai mondiali di Italia ’90, quando è iniziato lo smembramento. Da fine anni ’60 in poi ricordo innumerevoli tifoserie in trasferta a Milano abituate alle loro rispettive curve restare basite di fronte alla possibilità di piazzarsi a metà campo del secondo anello – l’ attuale rosso – e di seguire la partita da un punto di assoluto privilegio (praticamente la stessa prospettiva della ripresa tv). Aggiungici che per una buona ventina d’ anni ho seguito le partite da dietro la porta verso la quale attaccava l’ Inter, spostandomi da una all’altra. Devo proprio dire qualcos’altro?
Ha ancora senso in Italia il concetto di quartiere? Nel bene e nel male è un retaggio formativo essenziale?
Probabilmente non ha più senso, o almeno non quello che ricordiamo. Per quanto mi riguarda, la mia formazione adolescenziale è avvenuta in viale Ungheria, zona 13, Milano, di rimpallo con un altro paio di quartieri limitrofi. Il retaggio lo sento tuttora, ma senza quel senso sacrale così irritante: nella mia vita sono stati parimenti formativi altri luoghi in seguito, in Italia e all’estero.
Nel libro esprimi sia la nostalgia che la soddisfazione di esserti allontanato da viale Ungheria. Quale sentimento prevale tra i due?
Quello che emerge nelle pagine di ‘Zenga e i suoi fratelli’ non è un sentimento nostalgico. Anzi: mi gratto quando sento continui richiami al quartiere che non c’ è più, al calcio che non c’ è più eccetera eccetera. Nel libro le storie di quartiere e i personaggi che le animano sono scene al rallentatore che si fondono tra loro fino a svanire nella modernità di solo qualche anno fa, già superata dai tempi. L’ essermene andato genera in me più che altro una sensazione di incredulità, in contrasto col vecchio adagio che voleva un milanese di viale Ungheria condannato a restarci per sempre.
Come giudichi il ruolo della famiglia nel periodo da te considerato?
Non credo fosse così fondamentale come spesso si dice. Al di là della mera educazione impartita in casa e a scuola, la formazione dei singoli ragazzi avveniva solo in parte tra le pareti domestiche: la frequentazione del mondo esterno – dai giardinetti sotto casa al cugino che abitava dall’ altra parte della città – ti faceva sentire un irresistibile impulso a fare, incontrare e vedere come andava a finire che è impossibile comunicare oggi ai nipoti di Paolo, Ambro, dello stesso Walter e degli altri protagonisti del libro. Con tutte le cose belle e qualche tragedia che questo ha comportato.
Cosa rimane in te di viale Ungheria oggi? Ne parli ancora con orgoglio?
Rimangono le scene al rallentatore, di cui mi capita di parlare con tutto l’ affetto ma senza rimpianto. Perché se è vero che puoi portare via Walter Zenga dal viale ma non il viale da lui, è altrettanto vero che con me puoi fare entrambe le cose.
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