Cosa ti ha spinto a ricordare la splendida cavalcata del Vicenza in Coppa delle Coppe?
La voglia di raccontare una bella storia italiana. Andiamo spesso all’estero, io per primo, a spulciare curiosità, avventura nascoste, imprese incredibili, ma anche il nostro calcio ne è pieno. E questa, che ho ‘vissuto’ da bambino, secondo me andava ricordata e rispolverata.
Ti sei ispirato a qualcuno in particolare per la figura di Tommy e per la sua famiglia? In tal senso hai ricercato un modo per snellire la narrazione?
Tommy è un omaggio al mio nipotino, di poco più di un anno, che si chiama, appunto, Tommaso. I riferimenti, invece, sono tutti nella mia famiglia: un papà juventino, un fratello interista, una sana malattia per il calcio… la nostra vita è stata davvero così! Tanto, tantissimo calcio. E adesso non è che sia cambiata più di tanto… si è solo arricchita, ma il calcio resta tema importante. Ho ‘usato’ gli occhi di Tommy per dare un taglio diverso alla narrazione: non volevo essere troppo didascalico, descrittivo, ma volevo far rivivere in un certo senso quelle emozioni, gli anni ’90 e le sue particolarità
Le parole dei protagonisti trasmettono più orgoglio per quanto fatto o rammarico per quello che avrebbe potuto essere?
Orgoglio per quanto fatto, senza dubbio. Il rammarico c’è per quel gol annullato a Luiso a Londra, ma per il resto c’è l’orgoglio non solo per quanto fatto in quella Coppa delle Coppe, ma anche per aver rappresentato una città e una tifoseria uniche.
A tuo parere in quale ambito sì è vista di più la mano di Guidolin?
Lo dice lui stesso e non sono nessuno per smentire il mister: con l’uomo tra le linee. Lui lo chiamava 4-4-1-1 per costringere gli esterni a considerarsi centrocampisti, ma in realtà era un 4-2-3-1 e quei tre, Schenardi-Zauli-Ambrosetti, tra le linee erano un po’ una novità. Così tanti alle spalle dei loro centrocampisti è stata la sorpresa biancorossa in Europa.
Dal libro emerge un Vicenza in grado di abbinare al meglio quantità e qualità, sei d’accordo? È questo uno dei segreti della squadra?
Sicuramente, oltre a un senso di appartenenza che altre poche volte ho percepito. Tutti si ricordano tutto, tutto combacia alla perfezione quando parla uno o parla l’altro: sintomo che quello che si è vissuto è qualcosa di unico. Tornando al campo: dalla cintola in giù tanta quantità, poi dalla trequarti in sù tanta qualità. Con un jolly, Viviani, che da terzino permetteva un’uscita palla migliore. Un terzino con la 10 sulle spalle che ha fatto tutti i ruoli, dal trequartista al difensore: che bellezza!
Tatticamente e tecnicamente era preferibile il Vicenza a due punte, con Arturo Di Napoli, oppure quella con il trequartista, con Lamberto Zauli?
Io adoravo Arturo Di Napoli, era fortissimo, tanto che lui era il vero intoccabile in quell’inizio di stagione, dov’era partito alla grande. Poi, però, è esploso Zauli in tutto il suo talento, e allora Guidolin non ha potuto fare altrimenti. Se devo scegliere una versione del Vicenza, scelgo quella con il secondo.
A proposito di Zauli concordi con chi lo ritiene un talento unico?
Le parole di Ambrosini nel libro lo dicono: meritava altri paloscenici per la qualità che aveva. Abbinava un fisico da centravanti con una tecnica da 10, il gol al Chelsea al Menti, secondo me, è il suo manifesto: aggancio da trequartista, protezione di palla alla Toni, diagonale da 9 vero. Forse meritava di più, ma sicuramente la sua dimensione provinciale lo ha reso più poetico.
Nella semifinale di ritorno qual è stato l’errore principale del Vicenza?
Probabilmente si poteva togliere un po’ prima Viviani, che il secondo tempo ha patito Vialli, e leggere meglio la situazione sul rinvio di De Goey, con Dicara che perde il duello con Hughes. Però in quella semifinale, tra andata e ritorno, il portiere olandese aveva davvero parato di tutto, specialmente a Luiso. E, come detto in coro dal Toro di Sora e Zauili, ci fosse stato il Var… in finale ci sarebbe andato il Vicenza!
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