Il libro di Fabrizio Fidecaro è davvero quello che ci vuole per comprendere in pieno il fascino e l’importanza dell’Europeo, attraverso un’analisi delle precedenti edizioni e di quella in corso. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Cosa rende il Campionato Europeo così coinvolgente e cosa ti aspetti dall’edizione di quest’anno?
La fase finale dell’Europeo è ormai simile a quella di un Mondiale, per numero e qualità delle squadre partecipanti. È sempre entusiasmante vedere all’opera le nazionali migliori in un simile evento. Stavolta, poi, a causa dell’emergenza covid, sono già passati tre anni dall’ultimo Mondiale, al quale, per di più, l’Italia non si era qualificata. Dunque, sono ben cinque anni, dall’Europeo 2016, che non ci riuniamo davanti alla tv per tifare gli azzurri in un torneo del genere. Speriamo si possa farlo in sicurezza, ricreando un momento di condivisione che ci è mancato. Mi aspetto, e spero, soprattutto che sia un’occasione per riportare un po’ di gioia e “normalità” nelle nostre case.
A tuo parere come mai l’Europeo ci ha abituati ai successi dei cosiddetti underdog come la Danimarca o la Grecia?
Con una fase finale a otto, com’era ancora nel 1992, era più facile che un’outsider arrivasse in fondo, o quasi. Nelle prime due partite del girone la Danimarca, ripescata in extremis al posto della Jugoslavia, aveva ottenuto solo un punto, ma le bastò sorprendere la deludente Francia per trovarsi di colpo in semifinale. A quel punto, l’entusiasmo fece il resto, dando vita alla splendida favola che tutti ricordiamo. Va detto, comunque, che si trattava di una squadra valida e ben guidata. Il successo della Grecia nel 2004 fu forse ancor più clamoroso: le partecipanti erano sedici, e gli ellenici batterono per due volte i padroni di casa del Portogallo, oltre alle temibili Francia e Repubblica Ceca. In quel caso il c.t. Rehhagel aveva creato una squadra compatta, difficilissima da perforare, e i suoi giocatori si dimostrarono in stato di grazia.
In effetti l’Europeo si è prestato più del Mondiale a simili imprese, che fanno parte del fascino dello sport. Nel torneo iridato c’è stato meno spazio per gli underdog, anche se, per fare un esempio, il trionfo del pur fortissimo Uruguay sul Brasile al Maracanà nel 1950 non fece meno scalpore.
Se dovessi scegliere una giocata simbolo del torneo sceglieresti il cucchiaio di Panenka del 1976 o il tiro al volo di Van Basten del 1988?
D’istinto risponderei la prodezza di Van Basten nella finale con l’URSS, soprattutto perché fa parte dei miei ricordi personali, dato che l’ammirai in diretta tv, da giovanissimo appassionato. Fu un lampo improvviso, che mi sorprese e incantò, per di più balenato dinanzi a Dasaev, ritenuto uno dei più forti portieri al mondo.
Anche il cucchiaio di Panenka, però, resta una giocata memorabile, e fra l’altro nel libro racconto un curioso retroscena al riguardo. In un certo senso Panenka fece scuola: Totti ripropose il cucchiaio nella rocambolesca semifinale con l’Olanda del 2000 e poi in parecchi vi si sono cimentati, sino a farlo divenire quasi una moda, o un vezzo. Resta comunque un gesto tecnico di valore, per tentarlo ci vogliono coraggio e grande fiducia nei propri mezzi.
Ci vedi una ragione tecnica nel fatto che l’Italia abbia vinto solo un’edizione dell’Europeo? Credi che in date edizione la nostra nazionale l’abbia utilizzato come banco di prova per il successivo Mondiale?
L’Italia ha vinto un solo Europeo e ben quattro Mondiali: due di essi, però, negli anni Trenta, quando si aggiudicò per due volte anche la Coppa Internazionale, che è un po’ l’antenata dell’Europeo. È vero, però, che, post-2006 a parte, abbiamo spesso brillato di più nel torneo iridato.
È successo che la nostra nazionale utilizzasse l’Europeo come banco di prova: ad esempio nell’88, con la giovane Italia di Vicini, in fase di rodaggio verso Italia ’90 (che purtroppo non si concluse come auspicato).
In generale, nel passato per noi il Mondiale ha rappresentato uno stimolo maggiore, quanto a tradizione e anche per la possibilità di confrontarsi con altre squadre blasonate e intriganti come le big sudamericane. Oggi, pur non avendo per forza di cose il fascino e il prestigio di un Mondiale, l’Europeo ne ricalca da vicino la formula ed è anch’esso qualcosa di molto importante e sentito.
Qual è la tua opinione sul Golden Gol e sul Silver Gol utilizzato in alcune passate edizioni? Erano perfettibili e magari riproponibili?
A mio parere no. L’introduzione del Golden Goal fu un errore perché, anziché aumentarelo spettacolo, portò le squadre ad arroccarsi in difesa per evitare di incassare una rete senza appello. I tempi supplementari, così, divennero nella maggior parte dei casi il festival della paura.
Il Silver Goal fu il tentativo di aggiustare in corsa un’idea che non funzionava, quasi non si volesse ammettere di aver sbagliato, ma i difetti restavano. Emblematica la semifinale vinta nel 2004 dalla Grecia sulla Repubblica Ceca: la rete di Dellas arrivò proprio allo scadere del primo supplementare, divenendo di fatto un Golden Goal.
Secondo me è preferibile lasciare i supplementari così com’erano e come sono tornati a essere. Per dire, con il Golden Goal Italia-Germania 4-3 del Mondiale 1970 sarebbe finita 2-1 per i tedeschi dopo neanche quattro minuti di extra time, e non avremmo assistito alla Partita del Secolo!
Il progressivo aumento del numero delle partecipanti ha aumentato o diminuito il livello qualitativo?
È chiaro che con quattro o otto squadre, come nelle edizioni fino al 1992, il livello medio delle partecipanti alla fase finale fosse solitamente molto alto. Al contempo, una volta qualificati, bastava azzeccare un paio di partite per ritrovarsi in zona trofeo e c’era dunque più spazio per le sorprese.
Ora la selezione iniziale è molto meno rigida, ma poi ci si trova a doversi confrontare con tutte le più forti, nessuna esclusa, ed è più complicato fare strada. In generale, poi, il livello delle nazionali europee, specie quelle considerate di seconda fascia, è salito molto: quindi direi che la qualità media non ha risentito dell’allargamento della fase finale. E di certo la formula attuale ha più appeal per pubblico e sponsor.
Hai una favorita per l’edizione del 2021 e puoi pronosticare una possibile sorpresa?
Dovendo fare un solo nome, direi la Francia. È campione del mondo in carica, ha tante frecce al proprio arco, tra giovani di enorme valore e calciatori nel pieno della carriera.
Sarà messa subito alla prova da un girone complicato: se riuscirà a passarlo, e senza consumare troppe energie, fermarla diventerà arduo. Poi c’è il Belgio, che da tempo sembra pronto a conquistare un trofeo: se al termine di
questo ciclo non ce la facesse, resterebbe una bella incompiuta. Non dimenticherei la Spagna e soprattutto l’Inghilterra: quest’ultima, se arrivasse tra le prime quattro, giocherebbe semifinale e finale in casa.
Come possibile sorpresa citerei la Danimarca, una squadra solida, che fra l’altro è partita a spron battuto nel girone di qualificazione mondiale.
Detto questo, tutti speriamo nell’Italia, che è ben guidata da Mancini e si candida a un ruolo da protagonista: d’altronde, ha già dimostrato di far parte dell’elite continentale approdando alla Final Four di Nations League. Un piazzamento tra le prime quattro è senz’altro alla nostra portata: poi, si sa, l’appetito vien mangiando…
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