Intervista: La Quinta Del Buitre

Il Libro di Juri Gobbini mette in risalto l’impatto calcistico e sociale della generazione di calciatori denominata “La Quinta del Buitre”, in un’analisi davvero accattivante. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come e quando nasce l’idea del libro?

Da piccolo sempre mi aveva affascinato il calcio spagnolo, purtroppo allora la tecnologia non era ancora sviluppata e le informazioni che arrivavano in Italia erano limitate. Si leggeva qualcosa sui giornali o riviste, ma per vedere all’opera i giocatori stranieri occorreva aspettare le Coppe Europee o le gare delle nazionali. Sono cresciuto perciò con il desiderio di saperne di più, non solo su Butragueño ma anche sulla Spagna degli anni Ottanta, su quel Real Madrid e su cosa rappresentò il Buitre a livello sociale. Il Buitre era una specie di “spina nel fianco” calcistica che adesso mi sono tolto.

Quanto la Quinta ha giocato alla Movida Madrilena e quanto quest’ultima è stata una rampa di lancio per la Quinta?

Fu un matrimonio reciproco, secondo me. Alla Movida mancava un idolo calcistico, mentre a livello sportivo Butragueño rappresentò una ventata d’allegria per il fútbol spagnolo dopo il fallimento del Mondiale 1982, e dopo l’arrivo sulla scena dell’Athletic Bilbao di Clemente con il suo approccio diretto e duro. Socialmente parlando, il suo volto angelico da ragazzo della porta accanto fu il poster non ufficiale della transizione, il passaggio dalla dittatura alla democrazia, la rottura con il triste e grigio passato. Per questo la sua figura è tutt’oggi popolarissima, al di là del numero di trofei ottenuti.

Qual è stato a tuo parere l’allenatore più importante per la crescita di Butragueño?

Senza dubbio Leo Beenhakker. Ovviamente Alfredo di Stefano fu il primo nel credere in Butragueño e nel lanciarlo – mitico il suo “Nene calentá” il giorno del debutto- ma il tecnico olandese seppe rimodellare la squadra attorno alla Quinta, eccezion fatta per Pardeza che nel 1987 decise di mettersi in proprio, passando al Real Zaragoza. Beenhakker, verso la fine del suo mandato, ebbe qualche discussione con la Quinta, ma il suo lavoro fu fondamentale a creare la piattaforma per la loro crescita calcistica e i relativi successi.

Credi che la Quinta del Buitre possa nutrire rimpianti per non avere vinto nulla con la nazionale maggiore?

Secondo me il rimpianto più grosso fu quello di non aver potuto vincere la Coppa dei Campioni. Purtroppo, nel 1988 si scontrarono con il PSV Eindhoven, squadra poco appariscente ma organizzata, che vinse il trofeo con cinque pareggi fra quarti, semifinali e finale. Poi toccò al Milan di Sacchi spazzar via i sogni di gloria della Quinta, e l’arrivo sulla scesa dei rossoneri fu un vero e proprio spartiacque per le fortune di quel Real Madrid. Sanchís fu l’unico dei superstiti della Quinta che riuscì a vincere la Champions una decina d’anni più tardi. A livello di nazionale, invece, sia nel 1988 che nel 1990 le Furie Rosse ebbero carenze a livello organizzativo, difficile pensare che sarebbero potuto arrivare fino in fondo. Secondo me i rimpianti maggiori furono per l’eliminazione nei quarti del Mondiale 1986 contro il Belgio: una sfida Buitre-Maradona in semifinale sarebbe stata davvero suggestiva. E Butragueño e Míchel erano arrivati in Messico in ottima forma…

A mio parere il valore di Michel è stato in parte sottovalutato dalla critica, sei d’accordo?

Si sono d’accordo: Míchel era un tuttocampista capace di giocare sia sulla fascia che mezzala, completo tecnicamente e dotato di una forte determinazione. Inoltre, vedeva benissimo la porta, andò in doppia cifra per quattro stagioni e arrivò in carriera a marcare 97 reti complessive nella sola Liga. Nel 1987, poi, giunse quarto nella classifica del Pallone d’Oro. La sua figura fu offuscata un po’ dalla presenza di Butragueño, ma quando si parla dei migliori centrocampisti spagnoli di tutti i tempi, Míchel deve essere per forza incluso.

Credi che Butragueño sia stato uno degli attaccanti più completi della sua epoca. Credi che le sue caratteristiche sarebbero state adatte anche in altri campionati? Come lo avresti visto in Italia?

Giocatori spagnoli hanno storicamente sempre brillato poco in Italia, e solo Suarez, Peiró, e Del Sol hanno avuto un impatto degno di nota, ma parliamo degli anni Sessanta. Il passaggio di Martin Vazquez al Torino, per esempio, fu discreto ma non trascendentale. Il Buitre aveva tutte le caratteristiche per far bene anche in Serie A, ovviamente, ma in mia opinione avrebbe sofferto i feroci marcatori dell’epoca. Non voglio sminuire il suo valore né dire che in Spagna le marcature fossero meno dure – dice niente il nome Andoni Goikoetxea? – ma l’Italia è comunque la patria dei difensori e delle difese. Sicuramente avrebbe avuto vita meno facile.

Provi nostalgia per un calcio che attingeva a piene mani dal vivaio e dove l’attaccamento alla maglia era un valore sentito?

Sinceramente, si. Una volta i giocatori rimanevano all’interno di un club molto più tempo rispetto ad oggi e ciò creava un vincolo affettivo squadra-club-tifosi. Per questo è più facile ricordarsi a memoria le formazioni di quell’epoca che quelle di questo decennio, per intenderci. Butragueño, poi, fu fatto socio dal padre il giorno della sua nascita: il Real era scritto nel suo destino fin dalla culla. Anche gli altri membri della Quinta, a parte Pardeza, erano tutti di Madrid, con Sanchís il cui padre era stato anche lui difensore del Real negli anni Sessanta.

 Ai nostri giorni credi sia possibile un fenomeno propositivo come La Quinta del Buitre?

Il calcio è cambiato molto da allora, si è evoluto molto. Per certi versi il Barcelona di Guardiola ebbe molte similitudini con il Real della Quinta, non solo per il tipo di gioco, ma anche per il fatto che i pilastri della squadra fossero usciti dallo stesso settore giovanile, anche se in differenti momenti. Paragonare Puyol a Sanchis, Xavi a Michel, Iniesta a Martin Vazquez, o Messi a Butragueño, è un po’ una forzatura, ovviamente, ma al di là delle differenze dei singoli, entrambe squadre erano fondate su un gruppo cresciuto assieme e che portava sulle spalle i valori del club. Oggi giorno le bandiere sono sempre più rare nei club, difficile che possano comparire sulla scena ben cinque tutte allo stesso momento.

Nel libro si dà spazio anche alle avventure dei singoli, come quella di Martin Vazquez al Torino o Miguel Pardeza al Real Zaragoza. Si parla sempre poco di Pardeza, eppure ha avuto anche lui una ottima carriera…

Si, la storia di Pardeza viene poco evidenziata, ma in realtà fu anche lui un gran giocatore, con 325 partite di Liga e 81 reti nel carniere. Fosse rimasto a Madrid a fare la riserva di Hugo Sanchez e di Butragueño, avrebbe sicuramente vinto molti più titoli, anche se da comparsa, mentre lui decise di mettersi in proprio, diventando leggenda del Real Zaragoza. Fu Pardeza, infatti, il capitano della squadra che vinse la storica Coppa delle Coppe del 1995, trofeo che andò ad aggiungersi a due Coppe del Re vinte in precedenza, più i trofei dell’epoca di Madrid.

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