
Nel suo libro Matteo Fontana ci racconta le gesta del grande Preben Elkjaer, con un interessante e sentito focus sulla sua esperienza veronese. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Parlare di Preben Elkjaer vuol dire far rifermento al più forte giocatore della storia dell’Hellas Verona?
Una valutazione di questo tipo resta complicata, perché ogni epoca ha delle diversità. Inoltre, entra sempre in gioco il vissuto, quello che si percepisce direttamente, per aver visto un determinato campione in azione. Elkjaer è stato un gigante, un trascinatore, un simbolo. Ha cambiato, con i suoi compagni di squadra, la storia del Verona. Non so se questo permetta di dire che sia stato il più forte di tutti i tempi, ma siamo senza dubbio di fronte a un fuoriclasse unico.
Quanto lui ha fatto la fortuna di Osvaldo Bagnoli e quanto quest’ultimo l’ha messo in condizione di rendere al meglio?
Entrambi hanno dato tanto l’uno all’altro. Bagnoli è stato uno degli allenatori più geniali (e, ritengo, sottovalutati) del calcio italiano. La sua visione del gioco, molto verticale, fatto di velocità e scambi rapidi, ha esaltato le caratteristiche di Elkjaer. E, allo stesso modo, Preben ha dato al Verona di Osvaldo il peso e la potenza offensiva che gli ha consentito di sprigionare tutte le qualità che emergevano nell’impostazione del tecnico.
Ritieni che con più fortuna e senza gravi errori arbitrali l’Hellas avrebbe potuto affermarsi anche in Europa?
Quanto accaduto nella partita di ritorno degli ottavi di Coppa dei Campioni, nel 1985, con la Juventus, rimane un fatto scandaloso, a distanza di trentacinque anni. I bianconeri erano una squadra di forza eccezionale, probabilmente avrebbero passato il turno ugualmente, ma il Verona fu penalizzato in maniera chiara. Fosse andato avanti dove avrebbe potuto arrivare? Entriamo nel campo delle fantasie. Per quel che riguarda la Coppa UEFA del 1988, l’assenza di Elkjaer a Brema, con il Werder, fu grave. Purtroppo, in quel caso, a tradire Preben fu il nervosismo che, nella partita del Bentegodi, lo portò a una reazione furiosa verso la panchina dei tedeschi, con la conseguente squalifica.
Ritieni che la nazionale danese del 1986 avrebbe potuto arrivare in fondo al Mondiale? La Spagna è stata davvero sottovalutata agli ottavi di finale?
Sono persuaso che quella Danimarca sia stata tra le più belle e spettacolari nazionali viste negli anni ’80. E credo, quindi, che avrebbe potuto arrivare fino in fondo. O, se non altro, alla semifinale con l’Argentina di Diego Armando Maradona. Immaginare una partita così è una bella suggestione. La Spagna sfruttò le leggerezze difensive danesi, l’impegno non fu preso sottogamba dalla squadra di Sepp Piontek.
Elkjaer ha creato un bellissimo rapporto con la città, rifiutando nel tempo proposte prestigiose e più redditizie da altre squadre: da questo punto di vista è stato una mosca bianca nell’ambiente del calcio?
Se non una mosca bianca, è stato una rarità. Non erano, peraltro, quelli i tempi del “calciomercato selvaggio” che è dilagato in seguito, con l’aumento esponenziale del ruolo degli agenti e gli effetti dispiegati dalla sentenza Bosman. Francamente non è facile pensare che un giocatore del calibro di Elkjaer possa, al giorno d’oggi, restare in una realtà non “metropolitana” com’è il Verona. Ma, va detto, neppure all’epoca era così semplice.
Cosa avrebbero potuto fare nel nostro campionato Preben Elkjaer e Michael Laudrup se schierati nella stessa squadra?
Avrebbero entusiasmato. E aggiungo che Laudrup, che in Italia non ha avuto continuità di rendimento e ha reso soltanto in parte per quello che è il suo valore, poi espresso appieno in Spagna tra il Barcellona e il Real Madrid, con al fianco Elkjaer sarebbe stato, suppongo, decisivo quanto lo era con la Danimarca. Anche questo, tuttavia, è uno di quei quesiti senza risposta che alimentano il fascino e la curiosità calcistica.
Cosa hai provato nel 1988 quando se n’è andato? Credi che potesse ancora far fare il salto di qualità ad una squadra tutto sommato mediocre?
Il Verona era agli sgoccioli di un ciclo epico. Con Elkjaer, andarono via anche Antonio Di Gennaro, Domenico Volpati e Silvano Fontolan, oltre a Gigi Sacchetti e, con loro, Giuliano Giuliani. Dopo Brema, tante cose si erano chiuse. Preben non era più al meglio sul piano fisico, fu un rammarico vederlo andare via così, ma era ormai inevitabile che andasse in quella maniera. Che poi il successivo Hellas sia stato una profonda delusione è discorso diverso: di certo molto fu sbagliato dalla dirigenza. E i nuovi giocatori non erano in linea con le idee di Osvaldo Bagnoli. I risultati furono conseguenti.
Provi nostalgia per un calcio nel quale campioni quali Briegel e Elkjaer potevano approdare in squadre di provincia? Ti appassiona ancora il calcio attuale?
La nostalgia è ovvia, perché pensare a quel che fu rinvia a un tempo mitico della vita, l’infanzia, perché ero bambino allora e tutto aveva un contorno magico, anche perché nella propria squadra, che per me era l’Hellas, potevi non soltanto sognare, ma avere dei giocatori che, ora, sarebbero inimmaginabili. Il mondo, però, è cambiato, figuriamoci il calcio. Si deve sempre andare avanti, senza dimenticare, nel contempo, da dove si viene. La passione per il pallone è diventata un mestiere, essendo un giornalista. Eppure quando la partita comincia, quando sento l’urlo del pubblico (quanto manca, ora), devo dire che ritorno a sentire la gioia di sempre.
Hai in cantiere altri progetti calcistici legati all’Hellas Verona?
Di idee ce ne sono sempre. A tempo e luogo, conto di iniziare a dedicarmi a un nuovo racconto, una nuova storia, un nuovo viaggio.
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