Intervista: Il Toro Del Paron

Il libro di Paolo Ferrero ripercorre l’esperienza di Nereo Rocco sulla panchina granta, con un’occhio di riguardo alla stagione 1964/1965, regalandoci aneddotti ed uno spaccato della società italiana del periodo. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Nereo Rocco ha sicuramente lasciato il segno anche durante la sua permanenza al Torino. Come mai è spesso tale esperienza è spesso dimenticata?

I risultati ottenuti sia in campo nazionale che internazionale con il Milan sia prima che dopo l’esperienza torinese sono stati veramente eccezionali, ed è normale che abbiano avuto più vasta eco rispetto alle altre.

Nonostante il suo nome sia legato fortemente al Milan sembra che Rocco abbia lasciato una parte del suo cuore a Torino, è così?

Secondo me a Torino ha vissuto una sorta di amore e odio. Grande feeling con tifosi e giocatori nei primi due anni, che sono stati anche quelli più redditizi. Poi, probabilmente, si è rotto qualche cosa nel rapporto soprattutto con i tifosi, che forse si aspettavano maggiori risultati. A Torino ci sono sempre due macigni che gravano sull’ambiente in maniera imponente e complicano l’operato degli allenatori: il ricordo degli Invincibili morti a Superga e la potenza degli Agnelli.

Il Torino della stagione 1964/1965 è senza dubbio una squadra di valore: al netto di sfortuna e penalizzazioni avrebbe potuto giovarsela in finale di Coppa delle Coppe contro il forte West Ham?

Il Toro di quell’anno ha tenuto benissimo testa, in semifinale, al Monaco 1860. Furono sconfitti soprattutto da circostanze sfortunate e da evidenti favoritismi verso i tedeschi da parte di arbitro e federazione internazionale. La finale, contro il West Ham, l’avrebbero giocata alla grande, ne sono
sicuro, e forse Rocco, con il classico gioco all’italiana, avrebbe ripetuto la magia tattica ottenuta nel 1963 contro il Benfica, nella finale di Coppa dei Campioni, vinta alla grande. Difesa serrata e gioco rapido in contropiede. Le nostre due veloci ali, Meroni e Simoni, sarebbero state imprendibili.

Rocco era solito giocare con un centravanti e due ali pure: la nomea di catenacciaro è quindi infondata?

Decisamente. I concetti del Paron erano ben chiari: difesa forte, prima di tutto, senza mai rinunciare, però, al gioco d’attacco, impostato soprattutto sulle ali, con rapidi capovolgimenti di fronte, sfruttando la potenza di un centravanti come Hitchens. La capacità principale del Paron era quella di saper equilibrare la squadra. Ricordo che nel Milan conquistò la sua seconda Coppa dei Campioni schierando ben tre attaccanti micidiali (Hamrin, Sormani e Prati) e una mezz’ala come Gianni Rivera che non mi sembrava molto disposta a sacrificarsi in copertura.

C’è un giocatore che più ha beneficiato dei suoi insegnamenti?

Tutti i giovani della squadra (ed erano tanti …) sono maturati con lui e quelli già esperti hanno fatto un ulteriore miglioramento. Tra i giovani ricorderei proprio Meroni e Simoni che in quell’anno sono letteralmente esplosi e poi Natalino Fossati che il Paron ha saputo dosare nelle sue prestazioni iniziali. E l’anno successivo c’è stato poi il lancio definitivo di “Trincea” Cereser.

Come mai le due stagioni successive non hanno portato gli stessi risultati?

Secondo me ha influito una sorta di rilassamento dopo la brillante stagione 1964-65 e poi l’acquisto decisamente sbagliato del centravanti Alberto Orlando dalla Fiorentina. La partenza dell’inglese, il grande Gerry, non è stata adeguatamente compensata dalle prestazioni di questo giocatore
capocannoniere del torneo appena concluso.

È giusto provare nostalgia per uomini come Nereo Rocco, protagonisti di un calcio che non c’è più?

Nostalgia per Rocco e per il calcio degli anni Sessanta, zeppo di fuoriclasse, italiani e stranieri.
Soprattutto nostalgia per un periodo sportivamente parlando più genuino ed entusiastico. Il calcio rispecchiava ciò che avveniva nel mondo culturale e nell’ambiente in generale: c’era entusiasmo, felicità, spensieratezza, tutte cose che facciamo fatica a ritrovare in questo triste periodo.

Continuerà a scrivere del Torino? Ha già qualche idea?

Mi piace scrivere di Toro, la mia fede innata, ma la mia non vuole essere solo una scarna cronaca.
Cerco di far rivivere a 360 gradi il periodo che descrivo. Bisogna documentarsi molto, andare per mercatini a cercare le riviste dell’epoca, consultare gli archivi digitali dei giornali, immedesimandomi personalmente nella musica, nella cronaca, e nei sentimenti dell’epoca. Non è un’operazione facile e in più ci vuole tanto tempo. Tempo che attualmente è assai limitato, vista la mia professione di medico di famiglia, impegnato a combattere e convivere quotidianamente con il coronavirus. Scrivo con passione ispirandomi sempre al mio amico e maestro irraggiungibile, Franco Ossola, colpito recentemente da un tragico lutto, al quale dedico idealmente il libro.

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