Molto interessante l”indagine condotta da Gian Marco Duina, che fissa un parallelo tra i flussi migratori e la corrispondente presenza di giocatori nati in altri paesi nelle rappresentative delle diverse edizioni dei Mondiali. Ne abbiamo approfondito i temi con l’autore.
Al termine del tuo libro ho davvero pensato che il calcio è davvero lo specchio del contesto sociale e politico, concordi?
Concordo in pieno, e lo rappresentano a pieno i tifosi di una delle squadre più politiche tra le massime serie europee: il St Pauli di Amburgo.
“Il calcio è apolitico come la costruzione di una bomba atomica” come può un fenomeno che coinvolge miliardi di persone essere immune dai coinvolgimenti politici e sociali? Il libro è una rassegna dei riflessi che i fenomeni storici come guerre, crisi, colonizzazioni e conquiste hanno avuto sulle nazionali di calcio attraverso i flussi migratori. Alcuni riflessi politici sono più espliciti come ad esempio la sfida tra Svizzera e Serbia nel mondiale 2018 con al centro la questione kosovara; altri più velati come la vittoria del Senegal sulla Francia nella partita d’esordio del mondiale 2002 che ha sancito una ribalta della nazione che per secoli è stata vittima di una spietata colonizzazione francofona
Ritieni più giusto che un calciatore debba scegliere la nazione nella quale è cresciuto oppure quella di origine?
La scelta della casacca da indossare ha a che fare con diversi aspetti personali. La si può scegliere perché rappresenta le proprie origini, perché rappresenta le radici della propria famiglia, perché si vuole rendere omaggio al paese nel quali si è cresciuti e che ha assicurato un futuro o semplicemente di ripiego perché non si è ricevuta la convocazione dalla nazionale sperata. Qualunque sia il motivo è una scelta intima che richiama alla propria identità, che rappresenta una nazione intera della quale si canta l’inno davanti alla bandiera che sventola. Non c’è un giusto o uno sbagliato nella scelta che si fa, l’unica cosa che considero giusta è dare la possibilità a qualunque calciatore di essere libero di scegliere quali colori rappresentano di più la propria identità
Credi che l’Italia culturalmente sia pronta a vedere una nazionale prevalentemente composta da italiani di seconda generazione con retaggi culturali diversi?
Il libro “Calcio e migrazioni” cerca di far emergere come determinati fenomeni storici accadano indipendentemente dalla volontà singola o collettiva.
I flussi migratori che hanno coinvolto l’Italia negli ultimi anni rappresentano un fattore che è inarrestabile e che è in atto a livello globale.
I flussi migratori dall’Italia al resto del mondo hanno contribuito fortemente allo sviluppo del calcio sia in America Latina che in Australia come si può evincere dalle numerose squadre di club locali anche attraverso le storie presenti all’interno del libro.
Dal 1930 ad oggi, sono stati solo 3 i giocatori nati in Italia a vestire maglie di altre nazionalità: il campione del mondo Ernesto Vidal con la maglia dell’Uruguay nel 1950, George Borba per l’esordio israeliano nel 1970 e il portiere Tino Lettieri con la maglia canadese nel 1986. Moltissimi invece sono stati i figli di italiani soprattutto con le nazionali del continente americano.
Il fatto è che determinati fattori storici avvengono senza tener conto della “prontezza culturale” di un dato Paese: è un dato di fatto. E’ un dato di fatto che nelle scuole calcio sia sempre più numerosa la presenza di bambini nati da genitori stranieri e che stanno contribuendo a tutti gli effetti allo sviluppo del calcio nostrano. Gli esempi di successo non mancano, da Mario Balotelli a Moise Kean fino all’italianissimo Iyenoma Destiny Udogie nato a Verona e in forza all’Hellas con una promettentissima carriera: insomma la storia non aspetterà certo che gli italiani siano tutti pronti, saranno loro a doversi adattare alla naturalezza degli eventi.
Qual è la tua opinione sui nostrani oriundi e sulla talvolta forzata procedura nel reperire patenti italiani?
Gli oriundi hanno rappresentato sempre una risorsa importante per l’Italia calcistica. Nel primo mondiale azzurro vinto nel 1934 erano ben cinque gli oriundi presenti in rosa: Orsi, Monti, Demaria, Guaita e Guarisi ai quali si aggiunge Andreolo nel mondiale vinto nell’edizione successiva. Argentina, Brasile e Uruguay, questi i paesi di nascita dei calciatori che hanno contribuito ad alzare per due edizioni consecutive la coppa del mondo al cielo alla nazionale italiana.Nel disgraziato mondiale del 1962 a fianco di Rivera e Maldini vi erano altri quattro oriundi: Sivari, Sormani, Altafini e Maschio anche loro nati tra Argentina e Brasile.L’Italia tornerà ad essere campione del mondo nell’82 e nel 2006 ed in quest’ultima edizione lo farà con Mauro Camoranesi nato in Argentina, mentre nell’ultima edizione disputata nel 2014 gli oriundi erano due: Gabriel Paletta e Thiago Motta.Insomma, si può dire che su quattro mondiali vinti, solamente uno non aveva una rosa con all’interno almeno un oriundo: era l’Italia del 1982 il cui unico giocatore a non essere nato in Italia era Claudio Gentile che vide i suoi natali in Libia, ma questa è un’altra storia.La recentissima vicenda Suarez ha riacceso i riflettori sul tema degli oriundi ai quali molto spesso si va a ricercare forzatamente un antenato italiano solo per garantirgli un passaporto valido all’ingresso nella rosa azzurra.
Emblematica è la contraddizione di chi contesta la presenza di oriundi nel calcio italiano appellandosi alla “purezza della razza” salvo poi cambiare idea se questi stessi giocatori permettono di raggiungere l’olimpo mondiale proprio come avvenne nel pieno periodo fascista degli anni ’30.
Dal tuo libro emerge come le migrazioni abbiamo caratterizzato tutti i paesi in epoche diverse: perché secondo te non lo si tiene in considerazione ai nostri giorni? L’immigrato fa paura?
Non credo che l’immigrato in sé faccia paura, ciò che spaventa di più è la campagna di accusa mediatica contro l’immigrato. La xenofobia è stata un’arma politica utilizzata sin dall’antichità per creare una sorta di unità nazionale da riversare su un capro espiatorio non a caso più debole e indifeso.
Da questo punto di vista, il calcio può essere un’arma valida per combattere queste forme di stereotipi e pregiudizi.
Attraverso il linguaggio universale proprio del calcio è possibile far risaltare gli aspetti più personali di tantissimi ragazzi che negli ultimi anni sono giunti in Italia e che proprio attraverso il calcio hanno trovato uno strumento per esprimersi e includersi maggiormente nella vita dal loro nuovo paese.
Cruciale in questo senso è il ruolo che diverse squadre di calcio hanno deciso di intraprendere aprendo le loro porte a chiunque volesse praticare il gioco del calcio, da nord a sud. Napoli United, Liberi Nantes a Roma, St Ambroeus FC a Milano sono solo alcune delle numerosissime esperienze che sulla nostra penisola hanno deciso di utilizzare il calcio come strumento di aggregazione, inclusione e contrasto ad ogni forma di discriminazione.
Ritieni che il calcio abbia ancora almeno localmente quella capacità educativa che a grandi sembra essere solo un ricordo?
Il calcio possiede ancora quel valore educativo di una volta, semmai ne è cambiato l’approccio. Il cosiddetto “calcio moderno” soggiogato dai diritti televisivi e dalla spettacolarità dei big match rischia di creare troppe aspettative ai più piccoli che preferiscono svolgere i propri allenamenti in accademie professioniste piuttosto che al parco o per strada con gli amici, perdendo quell’importanza aggregativa propria dello sport in sé. Ma appena ci si allontana dai riflettori, lo sport diventa ancora quell’arma impareggiabile di espressione individuale ed emancipazione collettiva. In tutta Europa è in atto una crescita esponenziale del movimento del calcio popolare, una realtà che si distacca dalla commercializzazione estrema del calcio mainstream e che vuole invece ritornare alle origini dello sport: aggregazione, condivisione di attimi, divertimento.Così numerose realtà si sono staccate dai grandi club e hanno deciso di ripartire dal basso, dai quartieri periferici delle proprie città o dai paesi di provincia riassegnando al calcio il suo posto d’origine: tra le persone.Io stesso ho avuto la possibilità di vivere in diverse parti del mondo attraverso il mio progetto “Hopeball” vedendo quanto lo sport possa essere uno strumento educativo che come pochi altri ha un impatto sui giovani e sulla comunità. Dall’Africa alla Striscia di Gaza, un pallone è ancora in grado di superare qualsiasi tipo di ostacolo e ha la possibilità di parlare proprio a tutti.
Continuerai a monitorare i fenomeni migratori nel calcio? Hai in cantiere altri progetti in tal senso?
Sicuramente “Calcio e migrazioni” è un punto di partenza e non di arrivo. Sicuramente c’è molta curiosità in vista dei Mondiali 2022 che per la prima volta apriranno le porte a 48 squadre, un vero inedito. Questo comporterà molti fenomeni da studiare sia dal punto di vista dei flussi migratori molto intensificatisi in questi anni, sia dal punto di vista socio politico verso il medio oriente dove per la prima volta si svolgerà questa competizione non certo senza qualche critica.Ciò che più mi incuriosisce è però quale sarà il futuro dello sport più bello del mondo.
Da un lato i grandi club spingono sempre di più verso la creazione di una super lega modello NBA che sancirebbe il definitivo connubio tra calcio e business, mentre dall’altra fioriscono sempre più gli esempi di realtà che combattono per rivendicare la presenza di spazi accessibili per poter praticare sport in maniera sana e aggregativa creando sempre più una spaccatura tra il calcio di base e il calcio professionistico. L’unica certezza è che questo sport non morirà mai, e ovunque nel mondo un pallone rotola per strada, ci sarà sempre un bambino a corrergli dietro, mantenendo vivo questo meraviglioso sport
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