Intervista: Pallone Nero

Il libro di Luigi Guelpa è un bel viaggio nela Africa del pallone e non solo, con le sue contraddizioni, i suoi problemi, i suoi aneddotti ed i suoi splendidi personaggi. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Riesci a riassumerci il tuo amore per l’Africa in pochi concetti base?

Per me tutto ruota attorno al “mal d’Africa”, che non è un mito letterario o una suggestione, ma è racchiuso nella luce. Il sole è terapeutico, non lo sostengo io, ma fior di medici che studiano la psiche umana. In Africa i raggi del sole cadono, per questioni geografiche, in maniera più parallela. Di conseguenza la luminosità del sole è maggiore rispetto ad altre latitudini. La luce, così potente, genera serenità e allegria. Pensate a come cambiamo, d’umore, tra un giornata di sole e una nuvolosa.

Qualche anno ad dietro si pronosticava come prossima la vittoria di una nazionale africana al Mondiale: qual’è la situazione attuale?

Camerun, Senegal e Ghana hanno raggiunto i quarti di finale, ma per vedere un’africana sul podio ci vorrà ancora troppo tempo. Le squadre sono divise in clan. I premi di qualificazione ai mondiali vengono spesso sottratti dai dirigenti. Gli allenatori, stranieri, non vengono pagati, oppure subiscono tutta una serie di ingerenze insostenibili. Anche in questo caso mi affido a un episodio poco conosciuto. Nel 1993 il ct belga Jean Thissen allenava il Gabon, ma dopo la sconfitta contro il Senegal e la fallita qualificazione ai mondiali americani, il presidente Omar Bongo decise di punirlo sequestrandogli il passaporto. Glielo avrebbe riconsegnato solo in cambio della restituzione degli stipendi versati nei due anni di lavoro. Dopo un braccio di ferro tra il governo belga e quello del Gabon, Thissen fu prelevato con un blitz dei caschi blu dell’Onu dall’hotel di Brazaville, in cui di fatto si trovava ai domiciliari, e portato in salvo.

Cosa ne pensi della fuga di giovani talenti in Europa e del poco limpido giro di interessi che ruota loro intorno?

E’ un terreno minato, soprattutto quando i giovani vengono prelevati poco più che bambini e portati in Europa, dove si perdono. Per fortuna, a fronte di casi drammatici, parecchi club d’elite hanno iniziato a stringere accordi con scuole calcio africane. I giovani sono così tutelati, e solo dopo il 16esimo anno di età, e di fronte a un talento evidente, vengono inseriti nel tessuto calcistico europeo.

L’importanza della magia e della superstizione nel calcio africano la vedi più come un qualcosa di affascinante o di limitativo?

Entrambe le cose. L’Africa nera è una terra dove voodoo e sortilegi valgono più del fiuto del gol di un attaccante o delle acrobazie di un portiere. Racconto un aneddoto. Cyrille Makanaky era l’ala destra del Camerun a Italia ’90, il team che con Roger Milla in attacco sfiorò il podio. Prima dell’inizio di ogni gara il fantasista faceva disporre in cerchio i compagni, e lontano dalle telecamere e da occhi indiscreti, orinava sul terreno di gioco. Poche gocce per tenere lontano gli spiriti negativi. Makanaky, che ora vive in Belgio e fa il sindacalista, ben si guarda dal bollarlo come gesto stravagante. Nei quarti di finale contro l’Inghilterra un’improvvisa ritenzione idrica non gli permise di espletare le normali funzioni fisiologiche. L’episodio fu interpretato negativamente da tutta la squadra. Il Camerun, per la cronaca, perse dopo essere stato ad un passo dalla vittoria, per colpa di una vescica capricciosa.

Il caso della Somalia, dove il calcio è vietato per motivi religiosi, è un’eccezione o credi che possa estendersi ad altre repubbliche mussulmane?

A Mogadiscio e dintorni non solo è vietato prendere a calci un pallone, allo stadio come per le strade, ma anche seguire le partite dal televisore può risultare fatale. Con provvedimenti a dir poco drastici è stata interrotta l’erogazione di energia elettrica, sono stati sgomberati con la forza cinema, bar e locali pubblici. Qualsiasi luogo di aggregazione viene controllato dai miliziani, le tv occidentali sono state oscurate. Persino una connessione a internet si può considerare clandestina e fuorilegge. Il 4 luglio del 2006 una coppia di fidanzati venne trucidata a colpi di mitra alla periferia di Mogadiscio perché si rifiutò di abbandonare un cinema durante la proiezione della semifinale dei mondiali tra Italia e Germania. Per fortuna quello somalo è un caso isolato, e spero che presto si possa tornare alla normalità con l’aiuto delle istituzioni (Fifa in testa).

Un calciatore africano che avrebbe meritato più fortuna?

Dico a colpo sicuro Benjamin Massing. Era un ottimo centrale della nazionale del Camerun. Venne però ricordato per aver attentato alla vita di Caniggia nella sfida tra Camerun e Argentina ai mondiali italiani. Era diventato Benjamin il macellaio e ancora oggi i video, impietosi, lo ritraggono sui social in quell’unico momento di follia. Aveva sacrificato consapevolmente la carriera per il suo Paese, ma quando la squadra rientrò in Camerun dopo aver sfiorato il podio fu l’unico a non essere invitato dal presidente della repubblica. Di ingaggi all’estero neppure a parlarne, nessuno se la sentì di offrirgli una seconda possibilità. Così come nessuno a fine carriera gli offrì un posto da allenatore. E’ morto nel dicembre del 2017 d’infarto, dimenticato da tutti.

Secondo te quale è stata la nazionale africana più forte o maggiormente competitiva?

Il Camerun del 1982. Per forza fisica, preparazione atletica e disposizione in campo. Dopo l’imbarazzante Zaire del 1974, il Camerun fu la prima squadra dell’Africa nera a raccogliere punti in un mondiale (3 pareggi) e a realizzare un gol (Mbida all’Italia). Aveva giocatori di tutto rispetto, da Milla a Nkono, passando per Kunde fino ad arrivare a Tokoto, un funambolo del pallone. Il Camerun ha aperto la strada, dimostrando che anche l’Africa avrebbe potuto trovare una collocazione importante nell’iride. Non a caso fu anche la prima nazionale del continente nero ad approdare ai quarti di finale in un mondiale (1990) e a vincere (insieme alla Nigeria) un Oro olimpico (nel 2000 a Sydney).

Quali sono i tuoi progetti futuri inerenti al continente africano?

Vorrei tornare a perlustrarla in lungo e in largo appena la morsa del Covid si allenterà. Mi manca, tantissimo. Vorrei, soprattutto, tornare in Senegal per documentarmi sulla lotta, che è diventata lo sport nazionale, soppiantando persino il pallone. Mi auguro di non dover scendere, come purtroppo è accaduto troppe volte, per documentare guerre o situazioni sociali disastrose. In Africa inoltre ho sempre scelto di viaggiare e di muovermi a distanza di sicurezza dai resort, dagli alberghi stellati e dalle agenzie di viaggio. L’Africa, soprattutto quella subsahariana, è una realtà sequestrata da un bizzarro disordine organizzato. Gli abitanti sono semplici, spontanei. Quando l’unica vera preoccupazione è quella di mettere assieme il pranzo con la cena, tutto il resto diventa superfluo e viene vissuto con grande serenità.

Quella, a tuo giudizio, che meriterebbe di essere maggiormente conosciuta? E perché?

Sicuramente la storia di Ephrem M’Bom, il difensore del Camerun che marcò Paolo Rossi in Spagna. Le zampate di alcuni di quei Leoni Indomabili lasciarono segni così profondi da non passare inosservati nella nomenclatura del calcio mondiale. Qualcuno entrò nella casta e trovò ingaggi milionari in Europa, del carceriere di Pablito invece si persero le tracce, almeno fino alla primavera del 2014, quando un tubo difettoso del bagno di un’associazione umanitaria portò a galla una di quelle storie nate sotto il sole dell’Africa. Padre Auguste Bourgeois, un cistercense con la passione per il calcio, non ha avuto la minima esitazione a riconoscere l’ex calciatore che ai mondiali di Spagna indossava la maglia numero 7 in quell’idraulico attempato che armeggiava sotto il lavandino con tenaglie e chiave inglese. E’ stato il religioso francese a raccontare del sorprendente incontro alla stampa d’oltralpe, che però ha relegato la notizia in un trafiletto anonimo tra le pillole degli sport minori.

Qual è il tuo ricordo di Gianni Mura e quanto c’è di suo in questo libro?

Gianni Mura è stato l’ispiratore di questo viaggio. Ci trovammo a pranzo lo scorso agosto a Milano. Lui ha sempre avuto un debole per lo Zambia. L’aveva visto fare a pezzi l’Italia alle Olimpiadi di Seul. Lui lo Zambia, io amo il Camerun e il Togo di Adebayor. Mi chiese a bruciapelo se fossi disposto a scrivere Pallone Nero. Aveva già il titolo in testa. Di fatto abbiamo lavorato fianco a fianco, dividendo il manoscritto in tre sezioni: i grandi del calcio africano, quelli che avevano brillato per una sola notte, e le storie. Ha corretto da cima a fondo il manoscritto. L’abbiamo ultimato a gennaio, poi è accaduto l’imponderabile. Devo ringraziare sua moglie Paola che mi ha consentito di pubblicarlo. Mura per me è stato un po’ un secondo papà. Oggi abbiamo qualcosa che è soltanto nostro, Pallone Nero appunto”.

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