Intervista: Una Casacca Di Seta Blu

Davvero imperdibile il libro di Paolo Frusca, un romanzo dettagliato e colmo di aneddoti su un personaggio leggendario come Bela Guttman. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Come e quando nasce l’idea di scrivere un romanzo su Béla Guttmann?

Guarda, in realtà è avvenuto il contrario! Mi spiego: io volevo scrivere un testo, genericamente, sugli anni fra le due guerre mondiali, sia dal punto di vista della Storia con la S maiuscola, sia dal punto di vista dello sport, che sono argomenti certamente non distanti. Era il periodo che mi interessava. Nel momento in cui decisi per il romanzo, mi serviva un protagonista vero sul quale incentrarlo, uno la cui esistenza fosse stata da romanzo, che aiutasse a creare anche il pathos necessario, che non potevo affidare solo ai personaggi di fantasia.  E poi Guttmann era un “perdente”, un fuggitivo, ed è più facile scrivere di sconfitti, almeno per me. Lui fugge dall’Ungheria di Horty negli anni ’20, scappa dagli USA della grande depressione con l’accusa di aver violato le leggi sul gioco d’azzardo e sul proibizionismo (!), si salva per miracolo dalla Vienna orrenda del 1938, e dalle stragi della seconda guerra mondiale, lascia l’Ungheria della cortina di ferro, e poi la Lisbona nella quale avrebbe potuto restare da vincente. E infine, già ormai avanti con gli anni, si dimette da CT della nazionale austriaca, amareggiato dalle critiche della stampa viennese, che gli ricordavano, in maniera inquietante, i giornali degli anni venti e trenta. Insomma un fuggiasco perenne. E infatti nel romanzo mi interessava molto di più questa parte del personaggio Guttmann, piuttosto che le sue innovazioni tattiche, delle quali tutto si sa e si è scritto.  Per cui si può dire proprio che io il povero Bela l’ho “sfruttato”!

Nelle tante situazioni difficili e talvolta tragiche il libro mantiene un tono leggero: era uno dei tuoi obiettivi nella sua stesura?ù

Si, e la domanda mi fa capire di esserci riuscito! Mi fai un grandissimo complimento, era certamente uno dei miei obiettivi quello di non appesantire troppo la vicenda, già di suo plumbea. E comunque, guarda, io Guttmann me lo immagino cosi: sarcastico, ironico, graffiante, anche fuori dal campo. In fondo, tutte le storie che si raccontano su di lui sono, se non vere, senz’altro verosimili: uno che voleva la maglietta diversa da quella dei compagni di squadra, o appendeva i topi morti alle maniglie delle porte delle camere dei dirigenti della squadra, o si inventava di inviare maledizioni secolari (!) a presidenti ingrati non poteva essere descritto in maniera tiepida, grigia!

Per la figura del giornalista Kudlacek ti sei ispirato a qualche figura del passato?

L’idea mi è venuta leggendo la biografia di Hugo Meisl, che aveva un fratello che era una star del giornalismo sportivo dell’epoca. Brillante, giramondo, caustico. Una storia naturalmente diversa da quella del mio antagonista, ma l’ispirazione arriva da li. Mi piaceva poi che avesse un cognome molto viennese, a caratterizzare il calderone multietnico della Vienna di quegli anni. “ Ogni vero Viennese ha una zia di Praga…”

Su Béla Guttmann girano miti e leggende più o meno veritiere, credi che il tuo libro faccia chiarezza in merito? 

Guarda, come ti ho scritto nella risposta al numero 2 la cosa principale di quelle storielle, o leggende, non è tanto che siano vere, non importa quello. Importa il fatto che siano verosimili, e questo già dice tutto! Comunque no, non credo il mio libro faccia chiarezza, non era quello lo scopo: ci sono e – spero – ci saranno sempre nuovi testi su un gigante del calcio come Guttmann, ma sono certo che una parte di mito resterà…tale.

Nella definizione di illusionista quanto conta la sua abilità nel sapersi vendere bene?

Ecco io su questo ho qualche dubbio: paradossalmente, a differenza del sentire comune, credo Guttmann NON si sia mai “venduto” bene. Al di là degli ingaggi magari alti per l’epoca, ma che poi dovette lottare per ricevere, credo sia stato capito poco dai dirigenti che aveva, iniziando ovviamente da quelli del Benfica, ma anche del Milan o della Federazione calcio austriaca. Certo, molti di questi insuccessi, o passi indietro, o vittorie mancate sono dipese dal suo carattere che non amava compromessi e che sceglieva subito la via delle dimissioni e del ripartire da capo. Cosa che fece mille volte.

È opinione diffusa quella di paragonare Guttmann a Helenio Herrera ed a José Mourinho. Lo trovi corretto?

 Si, molto corretto. Helenio Herrera fu certamente a sua volta un “illusionista”, uno che portava la squadra a credere cose non reali, ma che ribaltavano la partita. Se devo però dire chi fu per me il primo a raccogliere la eredità di Guttmann, non tanto dal punto di vista tecnico o tattico ma da quello del carisma e del modo di stare in panchina e negli spogliatoi ti direi Ernst Happel: fra l’altro c’è un simbolico passaggio di testimone: Happel, viennese, inizia la sua carriera da viceallenatore del Rapid in una partita di coppa Campioni, al Prater, proprio contro il Benfica di Guttmann, match del quale io scrivo nel romanzo e che finì con invasione di campo, lacrimogeni e giocatori assediati negli spogliatoi

Lo ritieni uno degli allenatori fondamentali per lo sviluppo tecnico e tattico del calcio?

Guarda, su questo ci sono là fuori molti appassionati ben più competenti di me, davvero. Certo, a quanto ho letto, Guttmann è uno che ha dato una impronta nuova, un modo di nuovo di approcciare la partita. Non solo e non tanto con lo spostare di lato o in avanti di dieci metri i centrocampisti… Non credo sia stata una banale coincidenza la mentalità e il metodo che Feola diede alla nazionale brasiliana del 1958, finalmente vincente, e il fatto che un anno prima Guttmann era stato proprio al San Paolo di Feola. 

Quanto l’antisemitismo ha influito nelle sue scelte e quanto ne ha sofferto a livello personale?

Questa è domanda complicata e semplice al tempo stesso: complicata perché il tema è talmente complesso e doloroso che non mi sento di sfiorarlo in poche righe, qui, come nel romanzo, del resto. (cosa questa che tu hai ben colto anche nella tua approfondita recensione). Semplice perché è a mio parere inimmaginabile un Guttmann spogliato della sua identità più profonda: quel Guttmann li, quello che abbiamo conosciuto, era possibile solo ed esclusivamente con quella identità lì, in quelle situazioni li, altrimenti sarebbe stato “altro”. Trovo poi straordinaria la sua frase “Non racconto di come mi son salvato per rispetto verso quelli che non ci sono riusciti”

Nel libro esalti giustamente la figura di Matthias Sindelar: credi sia stato il più forte calciatore della sua epoca?

Su Sindelar sono state scritte, anche recentemente, molte cose inesatte, retaggio di una mitizzazione che parte proprio dai giorni tragici della sua morte e che da allora si trascina. Da un lato è fastidiosa, questa ripetizione di banalità. Dall’altro fa però capire come il mito abbia ormai trasceso la realtà, e forse è giusto così. Per quanto mi riguarda ti rispondo usando le poetiche parole di Torberg, scritte nei giorni immediatamente successivi alla morte di “Cartavelina”  «… Era amato da tutti i Viennesi che lo avevano conosciuto, e quindi da tutti i Viennesi… ». Forse non il più forte, ma il più amato. Per me era un Baggio ante litteram: classe immensa, vinto poco, molto gentile fuori dal campo, ginocchia rotte, sfortuna nelle partite chiave, amatissimo da tutti. Ancora oggi sulla tomba di Sindelar trovi mazzi di fiori freschi col nastro biancoverde del Rapid, la squadra rivale per eccellenza, per lui storico “Austrianer”, a Vienna

Credi che ci saranno altri tuoi progetti legati a Guttmann o ai contesti a lui collegati?

Mi piacerebbe, vediamo che riserva il futuro! (ancora grazie)

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