Il libro di Alfonso Esposito è un magnifico viaggio nella storia del calcio dell’Est Europa, raccontata con una competenza ed una passione uniche. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Quanto la componente politica e sociale dell’Europa dell’Est ha contribuito ad appassionarti alle sue vicende calcistiche?
Amo moltissimo sia la storia che il calcio, niente di più facile per me che amare anche la
storia del calcio. A parte i giochi di parole, la curiosità per il mondo condensato in quei
rettangolini magici che erano le figurine dei calciatori ha avuto un peso decisivo, l’est mi è sempre apparso come l’ovest per i pioneri americani, una nuova frontiera da esplorare e vivere.
C’è una nazione che più di altre ti ha affascinato dal punto di vista calcistico?
Nessuna in particolare perché ognuna ha il suo fascino, partendo dalla ‘cenerentola’ Albania fino ad arrivare alla ‘regina’ Unione Sovietica. Anche se ti confesso il mio debole per Germania Est e Polonia: la prima mi ha incuriosito molto, anche quando da ragazzo giocavo a ‘Subbuteo’, a causa del suo exploit vincente contro la ‘sorella’ ricca e potente dell’Ovest ai mondiali del ‘74; la seconda mi ha conquistato perché sempre in quella sede mise in mostra un calcio spettacolare e organizzato, che purtroppo ricordo bene di aver ammirato nella
sconfitta di Stoccarda per 1-2 della Nazionale italiana di Valcareggi.
Nel libro citi Valeri Lobanovsky e Rinus Michels come fondamentali per le loro teorie tattiche: quale dei due è influito di più ed esiste una correlazione tra i due.
Lobanovsky e Michels sono a loro modo due ‘sognatori’, anche se credo che Rinus lo sia
stato di più, perché il suo totaalvoetbal ha stregato e condizionato le generazioni
contemporanee e successive di allenatori. Entrambi hanno immaginato ed elaborato una
concezione del calcio come gioco di squadra in grado di segnare una svolta rispetto agli
schemi consolidati nella loro era calcistica. Per fare un esempio, il 4-3-3 di quel tempo con l’ala destra a fare da raccordo tra mediana ed attacco e il mediano chiamato a interdire e basta diventa molto più dinamico: Cruijff, la punta di diamante, è in realtà un giocatore offensivo che collabora alla costruzione del gioco, quando non è proprio lui ad inventarlo, così come Zavarov galleggia tra seconda e prima linea a ridosso delle due punte, che sia con Michels che con Lobanovsky operano meno decentrate e più in grado di stoccare a rete.
In quale contesto a tuo parere l’influenza politica ha più limitato l’espansione calcistica delle relativa nazionale e dei club?
Mi viene subito in testa la Romania, ma anche la Bulgaria è un esempio più che valido: la
chiusura pressoché totale a qualsiasi tipo di rapporto, anche minimo, con realtà sociali e
calcistiche diverse ha inciso non poco. Nel volume mi soffermo in particolare sul ‘grigiore’ del calcio rumeno, che metto in correlazione con la ferrea dittatura di Ceausescu; non a caso, finita la seconda, è rifiorito il primo, con la generazione di Hagi, Belodedici e Raducioiu che si è fatta finalmente notare. Anche se poi, per dirla con Eduardo De Filippo, ‘a nuttata era passata solo temporaneamente, visto che il football di questo Paese è ripiombato nell’anonimato.
La Jugoslavia a tua parere ha patito le forti differenze etniche presenti in seno alle diverse rappresentative? Sono state una componente per i mancati successi?
A rispondere affermativamente non sono solo io, ma in primo luogo, ed ancora una volta, la storia. Basti pensare alle spedizioni mondiali del ’74, dell’82 e del ’90, nelle quali i talenti puri non mancavano di certo: mi limito a ricordare Dzajic, Surjak, Petrovic, i gemelli Vujovic, Susic e poi Prosinecki, Savicevic, Boksic e i due che ho ammirato di più, Dragan Stojkovic e Davor Suker, per il quale letteralmente ammattivo. Tutti insieme rappresentano un concentrato di classe purissima, altrimenti non lo avrebbero ribattezzato ‘il Brasile d’Europa’. Solo che la multiforme provenienza etnica, che pure poteva costituire un vantaggio – consentendo di sommare le qualità singole delle varie ‘scuole’ – ha finito col rivelarsi un limite, perché questa varietà è restata pura e semplice eterogeneità.
Quando si parla della storia del calcio dell’est il ruolo della Cecoslovacchia è spesso sottovalutato. Come lo spieghi?
Perché la Cecoslovacchia è l’esempio più eclatante e non confutabile di come si possa
vincere anche senza stelle di eccelsa levatura tecnica, perché a fare la differenza è il
collettivo. Penso alla Nazionale campione d’Europa nel ’76, nella quale, a differenza di
quanto accaduto in Jugoslavia, le due componenti ceca e slovacca si sono fuse alla
perfezione, coniugandosi efficacemente il talento tipicamente boemo con l’organizzazione tattica slovacca. Risultato? Un undici granitico e letale, almeno in quell’edizione, e poco mancò che non si ripetesse anche agli Europei italiani quattro anni dopo. Ecco, quel calcio è stato vincente, ma poco apprezzato a livello mediatico perché Panenka ed Ondrus nella vetrina continentale ‘luccicavano’ meno di Beckenbauer e Cruijff, che pure si son dovuti arrendere ai cecoslovacchi.
L’Aranycsapat è una delle nazionali leggendarie della storia del calcio: secondo te più per le teoria di Gusztav Sebes o per una generazione irripetibile di talenti?
Per entrambe le ragioni, va a capire qual è quella preponderante. Diciamo che si
condizionano a vicenda: senza la concezione collettivistica, diciamo ‘socialista’, di Sebes i
vari Puskas, Kocsis, Hidegkuti – e mi fermo qui – avrebbero brillato allo stesso modo? E
senza quella covata irripetibile di talenti il c.t. magiaro avrebbe ottenuto gli stessi risultati? Credo proprio di no. Sebes ha avuto il merito indubbio di aver puntato sul modulo che meglio di qualunque altro mettesse i suo uomini in grado di brillare al massimo delle loro capacità, ma anche il capitale umano che aveva a disposizione ha dimostrato di possedere la capacità di tradurre in pratica in modo mirabile i suoi dettami. Peccato per il vero tallone d’Achille di quella Ungheria, una fragilità difensiva che emergeva innegabilmente quando si trovava di fronte avversari magari meno dotati tecnicamente, ma con un giusto equilibrio tra fase difensiva ed offensiva, come la Germania ovest che la superò in finale nel 1954. Tuttavia, la ‘scuola ungherese’ conserva intatto il suo fascino, ancor oggi.
Dal libro si evince una tua passione per il grande Flórián Albert, da dove nasce?
Albert mi intriga per la sua eccellente eleganza tecnica e per la capacità di essere leader di una squadra che pure faceva a meno del grande Puskas. Ma la ragione vera per la quale prediligo Florian è per la sua intelligenza calcistica, che lo ha portato a brillare ‘per’ la squadra e non ‘sulla’ squadra che gli ruotava intorno. E gli applausi a scena aperta che, ai mondiali del 1966, meritò alla fine della gara vittoriosa per 3-1 contro il Brasile detentore in carica del titolo sono la conferma palese della sua levatura superiore.
Come spigheresti ad un giovane cosa ha rappresentato il calcio dell’Europa dell’Est pre caduta del Muro di Berlino?
Io non saprei spiegargli proprio nulla. Quel calcio andava vissuto e chi come me ha avuto la fortuna di poterlo vivere – perché l’ho vissuto – può dirsi un privilegiato. E basta. Al
massimo gli suggerirei di andarsi a rivedere qualche testimonianza filmata dell’epoca per capire che il gioco del pallone è qualcosa che va ben al di là di qualche particolare ben reclamizzato ed alla moda delle stelle attuali. Nessuna polemica, per carità, ma talvolta mi lascia perplesso ascoltare e vedere cronisti che si entusiasmano per dettagli che nulla aggiungono alla bellezza di questo che è e deve restare uno stupendo gioco. E credo che fare calcio nell’Est di allora, con mezzi economici molto più limitati che in occidente, e ciononostante far parlare di sé sia un’autentica impresa. Ecco, quei calciatori, anche quelli meno noti come gli albanesi, hanno vinto la partita più difficile, quella contro l’oblio, se ancora oggi qualcuno parla e scrive di loro.
Ai nostri giorni sei ancora affascinato almeno in parte dal calcio dell’est?
Il calcio dell’est odierno mi affascina come quello di ieri, perché se è vero che è caduto il
muro di cemento e filo spinato nel 1989 e che da quel momento abbiamo potuto sapere e
vivere di più, è altrettanto vero che da allora, e silenziosamente, è stato elevato un altro
muro, quello della divulgazione mediatica, che trova molto più appetibili i mercati
tradizionali perché son quelli che, dal punto di vista del consumo del prodotto, ‘tirano’ di
più. E, francamente, se ho sempre sperato che un giorno la barriera che spaccava in due
Berlino potesse crollare, devo confessare che per quella attuale – che separa il mercato
calcistico ricco da quello meno dotato di mezzi e risorse finanziarie – i miei dubbi sono
purtroppo molto più resistenti.
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