Il romanzo di Emanuele GIulianelli e Palo Frusca è l’occasione per ripercorrere la storia della Jugoslavia e l’epopea del suo affascinante calcio. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Come vi è venuta l’idea del libro e come avete strutturato la redazione dello stesso?
Frusca: l’idea di un libro sul calcio jugoslavo è di Emanuele Giulianelli e del curatore della collana, Cristiano Carriero. Quando si è trattato di fare virare la forma del testo da saggio a romanzo si è presentata la necessità di una figura centrale, che facesse da filo conduttore per i lettori, cronologicamente e tecnicamente. Perciò abbiamo creato e sviluppato la figura di Aca Mirkovic, massaggiatore e magazziniere. Mio compito era quello di raccontare Aca con l’andare degli anni, mentre devo dire che è stato molto bravo Emanuele ad adattare tutto ciò che aveva già scritto, in forma appunto di saggio, a questa nuova e non semplice situazione narrativa.
Giulianelli: la mia idea parte da molto lontano, è in incubazione da una decina d’anni. L’idea che ho sempre avuto in sottofondo, anche lavorando ad altri progetti, era la necessità di dover scrivere qualcosa sulla fine della Jugoslavia e su quella Stella Rossa che arriva sul tetto del mondo proprio quando quello stesso mondo le sta crollando sotto i piedi. L’incontro con Cristiano Carriero e Paolo Frusca ha consentito, finalmente, dopo anni di materiale raccolto e di pagine scritte senza un vero e proprio filo, all’idea che ho sempre avuto di assumere una forma definitiva. Tutto il resto l’ha fatto Aca.
Nel tratteggiare la figura di Aca vi siete inspirati a qualche personaggio in particolare? Quanto avete attinto dalle vostre ricerche per renderlo il più possibile veritiero?
Frusca: Dapprincipio no, poi avvenne una cosa simbolica e malinconica al tempo stesso: proprio pochi giorni dopo avere deciso che la nostra figura inventata sarebbe stato un massaggiatore che per decenni aveva seguito il calcio dei plavi, apprendemmo che era venuto a mancare Giorgio Rossi, che per oltre trent’ anni era stato a sua volta, ma realmente, massaggiatore e uomo spogliatoio della Roma…una sorta di Aca sul Tevere. Ricordo che ne parlai a Emanuele, che da romano e romanista ben conosceva la vicenda, e ne fummo entrambi colpiti.
Giulianelli: non posso che confermare quanto detto da Paolo. Aggiungo solo che, personalmente, ho colto la sincronicità con quanto accaduto al mitico Giorgio Rossi come un segno che stavamo procedendo sulla strada giusta. Non mi dilungherò oltre, ma nella mia vita ho imparato a sviluppare una sensibilità per questi segnali.
Ho davvero apprezzato come avete bilanciato l’appassionante lato sportivo al tragico panorama politico-sociale, trasmettendo emozioni positive e ovviamente negativa: era un po’ questa la vostra finalità?
Frusca: Hai perfettamente centrato la questione: nella nostra testa Aca Mirkovic è l’incarnazione stessa della Jugoslavia: la nascita, lo sviluppo, i successi, e poi la crisi, e – senza spoilerare – il tutto senza un lieto fine, ovviamente.
Giulianelli: un amico che ha letto il libro mi ha detto che la vera impresa di quanto abbiamo scritto è stata non rendere prevedibile una storia che, di fatto, tutti sanno come andrà a finire. La Jugoslavia non torna in vita nel nostro Notturno a lei dedicato, perché così è stato: ma abbiamo trovato il modo di seguire passo passo la sua fine, esaltando in parallelo i suoi trionfi sportivi e i suoi eroi che rimarranno per sempre. La Jugo è finita, ma il suo spirito rimarrà per sempre, quello spirito che si è incarnato nella Stella Rossa che la notte alza al cielo di Bari la Coppa dei Campioni e a quello di Tokyo la Coppa Intercontinentale. Questo rimane e non nessuno potrà cancellarlo.
Idealmente in molti attribuiscono all’errore dal dischetto di Faruk Hadžibegić al Mondiale del 1990 la fine della Jugoslava: come vi ponete di fronte a tale teoria?
Frusca: Sono acceso sostenitore di una teoria più complessiva, in base alla quale non si capisce il Novecento senza saperne almeno un poco di Sport. Però è assolutamente inappropriato ed eccessivo attribuire una qualche importanza al risultato di quel mondiale. Fra il Triglav, la Drina e l’Adriatico stava già venendo giù tutto, non vi era più nulla da fare, per me. Lo stesso vale per chi sostiene che una vittoria ungherese al mondiale di calcio del 1954 avrebbe evitato i massacri di Budapest 1956.
Giulianelli: la penso come Paolo. Anche se Faruk avesse segnato e anche se, spingendomi ancora oltre nell’ucronia, la Jugoslavia si fosse laureata campione del mondo (e aveva tutte le qualità per riuscirci!), non si sarebbe potuta evitare una dissoluzione che stava già, di fatto, avvenendo. Una vittoria avrebbe potuto forse rendere meno cruenta un’inevitabile catastrofe? Temo di no: troppo forti certi sentimenti negativi, certe acredini che venivano da lontano, per essere stemperati da un trionfo sportivo, seppur enorme. Basti pensare che in quello stesso 1990 la Jugoslavia un titolo mondiale lo vinse (Paolo potrebbe raccontarvi molto meglio di me di quella incredibile squadra), nel basket, ma non bastò a fermare la tragedia imminente.
La Jugoslavia ha sei repubbliche, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni e un Tito”: quanto questa frase ha sempre suonato come un triste presagio?
Frusca: come presagio fu forse più evocativa la frase di Tito: “La pace durerà cento anni, ma dobbiamo essere pronti a combattere domani…” Purtroppo era vero.
Giulianelli: dimentichi i due alfabeti. Scherzi a parte, quello slogan era la forza della Jugoslavia, ma nello stesso tempo la sua debolezza: l’unico a tenere in piedi una federazione così complessa, sotto tutti i punti di vista, era proprio Tito. E questa debolezza è emersa, tragicamente e inesorabilmente, alla sua morte.
Dei calciatori jugoslavi si è spesso detto che sono incostanti, irascibili e molte volte non inseribili in un contesto, nobilitandoli però con la nomea di “brasiliani d’Europa”: tale descrizione vale anche al di fuori di un contesto sportivo?
Frusca: temo in effetti che un certo tipo di atteggiamento diciamo, “sopra le righe” se applicato nello sport porti, al massimo, a sconfitte inaspettate, a tonfi imprevisti, magari partendo da favoriti, ma portato pari pari nel mondo della politica possa essere foriero di disastri. Qualche esempio nella Storia dei Balcani c’è, ne accenniamo nell’ultimissimo capitolo del testo.
Giulianelli: ancora una volta faccio mia la frase di Churchill: “I Balcani producono più storia di quanta ne possano consumare”. Dev’essere nell’indole di quelle popolazioni vivere di eccessi, nel bene e nel male: la bellezza di quel calcio è (parlo al presente, poiché quanto fatto rimane) superiore a qualsiasi altra, forse anche a quella brasiliana per una maggior organizzazione difensiva rispetto ai carioca. Ma quando scatta la miccia dell’odio, quando si dà fuoco su sentimenti repressi, la violenza e il male prodotti sono anch’essi sopra alla crudele media delle guerre.
Calcisticamente parlando c’è un personaggio o una squadra del calcio jugoslavo al quale siete particolarmente legati o che ha sviluppato la passione verso lo stesso?
Frusca: Il vero competente di calcio fra noi e due è Emanuele, chiedi a lui! Per me, baskettaro, il legame affettivo è con la Jugoplastika e, prima ancora, con Krešimir Čosić!
Giulianelli: Crvena Zveda, Stella Rossa parlando di squadre, Dragan Stojkovic un gradino sopra gli altri, se devo scegliere un solo nome di calciatore. Potrei stare ore a parlarne, a raccontare questa passione: fate prima a leggere il libro per trovarne i motivi e le emozioni.
La Stella Rossa multietnica campione d’Europa e del mondo può essere un esempio di come la Jugoslavia unita potesse in qualche modo esistere e avere successo?
Frusca: non saprei, credo comunque di no. Tornando appunto al Basket, quella nazionale vinse tutto, e stava continuando a vincere, ed era multietnica, e tuttavia non bastò a frenare la valanga. Il fronte della slavina che si stava staccando era troppo esteso.
Giulianelli: ho praticamente già risposto parlando della nazionale di Italia ’90. La risposta è negativa, la tragedia era già in atto e non si poteva più fermare.
Ultimamente sembra esserci un rinnovato interesse verso il calcio jugoslavo, come ve lo spiegate?
Frusca: Magia senza tempo ti basta come spiegazione?
Giulianelli: c’è qualcosa di romantico, di magico (Paolo come sempre ha azzeccato l’aggettivo migliore) e, per usare un termine davvero abusato in questi anni, nostalgico in quel calcio. Il segreto del suo successo negli anni, del fatto che oggi se ne parli così tanto a quasi trent’anni dalla sua fine, sta nella bellezza. Anche chi non capisce di calcio non può non apprezzare una punizione di Stojkovic, un tiro da trenta metri di Mihajlovic o provare un brivido nella schiena vedendo Pancev che corre con le braccia al cielo dopo aver segnato il rigore decisivo contro il Marsiglia. Non solo estetica però: c’è anche il fascino nelle vicende umane, legate alle differenti repubbliche d’origine, al mix culturale che ha portato il calcio jugoslavo. La vittoria di Bari è stata il sigillo che ha consegnato alla storia un calcio che ci ha lasciato da vincente. Ho sempre pensato che un grande campione lascia un ricordo migliore e più duraturo di sé quando lascia da vincitore, quando smette di competere dopo un grande trionfo: la Stella Rossa, con i suoi successi, ha eternato il calcio jugoslavo.
Da attenti osservatori come vi ponete di fronte al quadro politico e sociale dei Balcani?
Frusca: qui davvero non so rispondere, bisognerebbe seguire con maggiore costanza. Mi sembra che il panorama sia in continua evoluzione. Se mi permetti, finisco con una considerazione personale e con un briciolo di ottimismo: nel paesino in Dalmazia nel quale mia moglie è nata, e nel quale torniamo ogni tanto a fare vacanze, hanno una squadretta di calcio che gioca in serie minori. Quest’anno, per la prima volta dopo trent’anni, (e guarda che coincidenza col nostro libro!) hanno invitato a fare un torneo giovanile internazionale proprio … la Stella Rossa di Belgrado! E prendiamolo come un buon auspicio… (grazie per lo spazio che ci dai!)
Giulianelli: non è semplice rispondere. I Balcani sono sempre una potenziale polveriera, non c’è mai la sensazione che tutto sia stabilizzato e tranquillo. Va risolta al più presto la questione del Kosovo, su tutti i tavoli internazionali, ma soprattutto con la Serbia, per evitare futuri conflitti. La ex Jugoslavia, a mio parere, dovrebbe trovare un nuovo modo di stare insieme: dopo gli anni dell’odio, potrebbe essere il momento di ritrovare ciò che univa, di metterlo di nuovo insieme per costruire un’unione d’intenti che può aiutare le varie repubbliche a trainarsi a vicenda. E chissà che questa nuova alleanza non possa avvenire sotto le stelle dell’Unione Europea. Grazie per l’ospitalità.
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