Intervista: Il Portiere di Astrachan

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Un grande esperto di calcio sovietico come Romano Lupi ci ha regalato un bellissimo libro sul mitico portiere Rinat Dasaev. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Nel complimentarmi per il libro ti chiedo quando è come è nata l’idea di scrivere sul grande Rinat Dasaev.

Si tratta di un’idea che avevo in testa da tempo, dal momento che Dasaev è stato il mio idolo calcistico di gioventù. Oltretutto, avendo nel corso degli anni approfondito parecchio l’argomento “calcio sovietico”, ho avuto modo di trovare ulteriori informazioni da integrare con i miei ricordi d’infanzia e adolescenza.

Credi che se fosse rimasto in patria avrebbe avuto una carriera più lunga e maggiori riconoscimenti?

Sicuramente avrebbe avuto una carriera più lunga. Anche se si parla di trent’anni fa, chiudere la carriera a 33 anni, per un portiere, è veramente presto. Sui riconoscimenti non saprei, ne ha avuto molti, in patria e all’esterno. Almeno fino al 1988, anno del suo trasferimento dallo Spartak Mosca al Siviglia.

Tecnicamente lo ritieni il miglior portiere degli Anni Ottanta?

Non so se tecnicamente sia stato il miglior portiere degli Anni Ottanta, di sicuro è stato un innovatore nel ruolo. Andatevi a rivedere le partite di 30, 35, 40 anni fa e guardate quanti portieri uscivano un quel modo e quanti di loro partecipavano in maniera attiva al gioco della squadra.

Per stile e senso della posizione è unicamente riconosciuto come un modello: quanto ha influito il suo studio sui metodi di allenamento dei colleghi più vecchi e contemporanei?

Tanto. Anche il fatto di contaminare metodologie diverse di allenamento è stato un qualcosa di innovativo che ha contribuito a plasmare un modo di giocare molto diverso rispetto a quello di suoi colleghi dell’epoca.

Credi abbia sofferto intimamente l’immancabile e continuo paragone con Lev Jašin?

Non credo. Anche perché il paragone è arrivato, soprattutto in Occidente, dai Mondiali del 1982 fino agli Europei del 1988. In URSS non arrivavano certe notizie. Come ho scritto nel libro, Jašin è stato per Dasaev un amico, un consigliere ma non un modello. E poi certe questioni di carattere competitivo riguardano più le società occidentali; in questo caso, entrambi avevano come obiettivo quello di ottenere il massimo per il loro paese. Da parte sovietica, la vera competizione era con le altre nazioni. Soprattutto quelle occidentali.

Allo stesso tempo credi abbia pagato una situazione politica instabile lontana da quella in cui è cresciuto? La perestrojka gli portato più problemi che opportunità?

Per lui, così come per tutti i primi calciatori sovietici andati a giocare all’estero, i problemi sono stati determinati dall’incapacità di adattarsi al modo di vivere occidentale. Le aperture ai trasferimenti all’estero hanno creato problemi e questi sono indirettamente figli della perestrojka. Fino a quando sono stati in URSS, anche durante il periodo della perestrojka, non hanno avuto grossi problemi né a livello calcistico né a livello personale. Sul piano prettamente tecnico-tattico Arrigo Sacchi, in un articolo scritto per il Guerin Sportivo al termine dei Mondiali del 1990 – citato in “Futbolstrojka” – attribuisce alla perestrojka alcune colpe in relazione al venir meno della disciplina tattica dei giocatori della nazionale di Lobanovskij. Sacchi riteneva, secondo me a ragione, che l’essere entrati in contatto con delle realtà sociali maggiormente improntate all’individualismo abbia contribuito a incrinare certi meccanismi collettivi che, ai Mondiali di Messico 1986 e agli Europei di Germania Ovest 1988, sembravano perfetti. Parimenti, alcune libertà figlie della perestrojka avevano modificato il modo di pensare anche nei confronti di coloro che erano rimasti in patria. In poche parole la mentalità di quei calciatori è cambiata in senso negativo. Un valutazione espressa dallo stesso Dasaev nell’intervista rilasciata nel 2017 a Repubblica per i suoi sessant’anni in cui diceva che, rispetto ai calciatori russi di oggi, loro “giocavano per l’amore del calcio e la gloria dell’Unione Sovietica.

Possiamo definirlo comunque un simbolo sotto un certo punto di vista della parte finale della storia dell’URSS?

La carriera calcistica di Dasaev della seconda metà degli Anni Ottanta è forse stata più un paradigma della fine di un’epoca che un simbolo di quel periodo. Come ho scritto alla fine del libro, però, più che un discorso relativo a Dasaev, si tratta di un discorso relativo a una generazione di calciatori. A proposito di simboli, se posso aprire una piccola parentesi sulla letteratura sportiva in generale, e su quella calcistica in particolare, ritengo che entrambe soffrano troppo dell’agiografia dei suoi protagonisti. E questo, a mio parere, porta inevitabilmente all’abuso della retorica. Troppe volte ci si dimentica che si tratta di atleti e non di entità “divine”, correndo così il rischio di santificarli, seppur laicamente. In ordine di tempo, l’ultimo esempio è quello del cosiddetto “sarrismo”. Si è elevato alla stregua di un capo rivoluzionario un allenatore, salvo poi gridare al tradimento quando è andato ad allenare la Juve. Come se andare ad allenare in Inghilterra la squadra di un oligarca russo fosse stato, invece, un atto rivoluzionario… Maurizio Sarri è semplicemente un grande che a sessant’anni, dopo tanta gavetta, è arrivato ad guidare uno dei top club a livello mondiale e ad allenare uno come Cristiano Ronaldo. Magari, se fosse andato ad allenare il Real Madrid – cha livello planetario rappresenta il potere ben più della Juventus – gli stessi che hanno gridato allo scandalo per il suo trasferimento in bianconero, tesserebbero le lodi dell’impiegato di banca che è arrivato ad allenare il club più titolato al mondo. Personalmente credo che il tifo abbia uno spazio nella letteratura calcistica (Nick Hornby docet) ma che vada dichiarato, se no, se si sottomettono i fatti alle fedi (calcistiche e non), si corre il rischio di proiettare su una persona le proprie aspettative, andandone a fornire una rappresentazione errata e a ipotecarne il futuro. Tornando al libro su Dasaev, per quanto mi riguarda, ho cercato di mettere in rilievo le prodezze e gli errori, le debolezze e i punti di forza, le lodi e le critiche, perché non si può piacere a tutti e i percorsi di vita non sono delle linee rette che non concedono deroghe alle incertezze. E poi trattando un personaggio russo, sappiamo bene come, in quella cultura, la figura dell’antieroe prevalga su quella dell’eroe.

Domanda difficile: cosa sarebbe cambiato per Dasaev e per tutto il calcio sovietico in caso di successo nell’Europeo del 1988?

Avrebbero ottenuto quel grande titolo che mancava dai tempi di Jašin. Un successo che, a tre anni dalla fine dell’URSS, sarebbe il “canto del cigno” della nazionale sovietica. Invece, il “canto del cigno” arrivò con la vittoria dell’oro olimpico nel calcio, ottenuto a Seul in quello stesso anno. Un successo che l’URSS di Dasaev mancò alle Olimpiadi di Mosca del 1980, con grande frustrazione da parte dello stesso Rinat.

Nelle fasi più delicate della sua carriera gli è stata in qualche modo di supporto la sua fede mussulmana?

Dasaev aveva un rapporto costante con la fede mussulmana. Un rapporto che sconfinava nella superstizione di mettere una copia del corano dentro il borsello dei guanti che depositava dentro la porta. Un modo come un altro per sentirsi più sicuro che, al contempo, è un sintomo di debolezza.

Come è ricordato oggigiorno in patria?

Come colui che nel 1988 ha vinto il titolo di miglior portiere del mondo.

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