Il bel libro di Francesco Veltri raccontata la struggente vita di Vittorio Staccione, valido mediano al quale la vita ha riservato tragedie, oppressioni e una fine tremenda nel campo di Mauthausen. Abbiamo parlato con l’autore.
Quando nasce l’idea di dedicare un libro a Vittorio Staccione, personaggio tristemente dimenticato dal calcio italiano e non solo?
Ho conosciuto la storia di Vittorio Staccione qualche anno fa, mi aveva colpito il fatto che un calciatore morto nel campo di concentramento di Mauthausen avesse giocato per tre stagioni con la maglia della squadra mia città, il Cosenza. Ho fatto qualche breve ricerca e ho scritto un articolo per Mmasciata.it, testata di informazione indipendente con cui collaboro. Da quel momento in poi ho sempre avuto il desiderio di approfondire il discorso. Desiderio che ha iniziato a prendere forma quando, grazie a una lettrice di Mmasciata, sono entrato in contatto con Federico Molinario, il nipote di Eugenio Staccione, fratello di Vittorio. Grazie anche al suo generoso contributo sono riuscito man mano a ricostruire tutti i passaggi della vita di questo sfortunato calciatore-operaio.
Come hai organizzato il copioso lavoro di ricerca?
Dovevo procedere per gradi, partendo dalle prime fasi delle vita di Vittorio, un uomo nato nel 1904. Ho visionato decine di documenti, verbali di arresto, interrogatori, cartoline, lettere, articoli di giornale e riviste dell’epoca, raccolti insieme a Federico negli archivi di Stato e nelle biblioteche delle città in cui Vittorio ha vissuto. Ho letto libri e ascoltato audio di tantissime testimonianze dei sopravvissuti di Mauthausen partiti con il trasporto di Vittorio. Non è stato un lavoro semplice, ma la storia di Staccione meritava questo sforzo.
Dentro e fuori dal campo Staccione è un esempio di determinazione: ci trovi una connessione tra la sua dimensione calcistica e quella sociale e politica?
Direi che le due cose viaggiano di pari passo. Vittorio era un ragazzo caparbio, determinato, e al tempo stesso ingenuo. Per lui era naturale giocare a pallone, così come era naturale opporsi al regime fascista. Non badava troppo alle conseguenze. Il suo atteggiamento dentro e fuori dal campo è sempre stato lo stesso. Non riusciva a capire perché il suo nome sui giornali di Cremona venisse sistematicamente sostituito con una X. Quando nel suo momento migliore fu allontanato dalla Fiorentina e mandato a giocare in serie C perché considerato un sovversivo, non fece una piega. Soffrì ma accettò la decisione con dignità, senza modificare di una virgola il suo atteggiamento verso chi deteneva il potere in Italia.
Calcisticamente credi avrebbe meritato una carriera migliore, dato che era uno dei mediani emergenti del panorama italiano?
Non lo dico io, lo dicono gli articoli di giornale e i resoconti dell’epoca. Vittorio era considerato un giovane talento emergente del calcio italiano. Nel 1927 una importante rivista nazionale lo inserì in un ristretto elenco dei migliori calciatori italiani di quella annata. Insieme a lui c’era gente come Libonatti, Bernardini, Baloncieri e Schiavio, i Baggio, Totti, Pirlo e Del Piero dei giorni nostri. Purtroppo la sua militanza politica in un periodo di atroce dittatura, ha finito per compromettere irrimediabilmente la sua carriera. Ha vinto uno scudetto col Torino, poi revocato, ma avrebbe meritato molto di più.
La tragedia famigliare che lo ha colpito sembra averne annientato lo spirito: credi che prima della deportazione le sue scelte e le sue azioni fossero pienamente lucide?
Dopo la morte di sua figlia e di sua moglie Giulia, ha un lungo periodo di smarrimento. Sul campo, a Firenze prima e a Cosenza poi, riesce ugualmente a dimostrare tutto il suo valore. Fuori dal campo, però, quelle ferite pesano e lo condizionano non poco. Non credo, però, a tal punto da fargli perdere la lucidità. Anzi, una volta abbandonato il calcio, forse proprio per cercare di dimenticare quel passato doloroso, Vittorio si butta anima e corpo nell’attività politica. E’ generoso e altruista. Il suo agire è quello di sempre. Ad essere poco lucido non è lui, ma il mondo che lo circonda.
Credi sia stato troppo ingenuo nel non nascondere le sue idee o nel fidarsi degli altri? Ha avuto fiducia nelle istituzioni fino all’ultimo?
Alla luce di ciò che gli è accaduto, verrebbe da rispondere di sì. Ma, probabilmente, lui era un grande uomo proprio perché era un puro, non sopportava le ingiustizie e credeva di poter esprimere le sue idee senza alcun problema. Più che nelle istituzioni, aveva fiducia nelle persone. E’ stato arrestato ingiustamente decine di volte, ma non ha mai perso la speranza.
Come mai secondo te storie come la sua restano molte volte nascoste nell’oblio?
Basta leggere i giornali per capire il motivo. L’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il ventennio fascista, una ideologia che è sempre lì, pronta a ritornare, seppure in forme diverse. In Italia si parla soprattutto di calcio e politica, ma le due cose non stanno bene insieme. I calciatori, così come in quegli anni tremendi, non devono esprimere idee e i pochi che lo fanno vengono puntualmente isolati o denigrati. Vittorio era un calciatore coraggioso, pensante, che non aveva paura di dire la sua. In Italia questa cosa non ha mai funzionato troppo. Magari, se avesse vinto i due titoli mondiali con la Nazionale di Pozzo, oggi sarebbe più conosciuto, non da tutti, sia chiaro. Ma a uno come lui la Nazionale era vietata.
Nella postfazione Domenico Beccaria invita i calciatori di oggi a leggere questo libro per recuperare i veri valori: concordi?
Ha ragione, e non perché si tratta del mio libro. Molti calciatori di oggi, in fondo, sono degli eterni Peter Pan, degli uomini rimasti bambini, non sempre per colpa loro. Non credo che siano privi di valori, penso piuttosto che, per varie ragioni, non abbiano un quadro ampio del mondo che li circonda. Vittorio non era un intellettuale, anzi. A un certo punto ha visto che nel suo Paese c’era qualcosa che non andava e ha cercato di capire, di informarsi, di lottare per dare un contributo al miglioramento della società. In quegli anni i calciatori non erano ricchissimi, i loro faccioni non apparivano spesso sui giornali e non c’era la tv. Oggi chi gioca a calcio ad alti livelli, diventa automaticamente, anche senza parlare, una star, un simbolo da imitare per tantissimi ragazzi. Una responsabilità enorme che non tutti riescono a comprendere fino in fondo.
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