Doriano Pela ci regala una versione romanzata della mitica partita di Sarnano del 1944 tra soldati tedeschi e italiani, dipingendo un quadro significativo della situazione dell’epoca. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Dove nasce l’idea di ricostruire e in parte romanzare la mitica partita di Sarnano?
Ne sentii parlare per la prima volta a metà anni Novanta, mentre stavo facendo una lunga serie di interviste in giro per le Marche a persone che avevano vissuto gli anni della guerra e della resistenza. Era un lavoro di ricerca basato sulle fonti orali, che sarebbe poi sfociato nel 1997 in un volume intitolato UNA NOTTE CHE NON PASSAVA MAI. La guerra e la resistenza nella memoria dei contadini marchigiani (edito da “Il lavoro editoriale” di Ancona). Me ne fecero cenno alcuni ex partigiani del maceratese, ma molto vagamente. Ed io, in ogni caso, non approfondii il discorso. Poi qualche anno fa ho visto un documentario, realizzato nel 2003 da Umberto Nigri (oggi un giornalista, ma all’epoca credo fosse ancora studente universitario) in cui venivano intervistati due dei protagonisti di quella partita. Ecco, quel documentario da un lato mi fornì informazioni interessanti, ma dall’altro fece scattare in me la curiosità. Perché le domande poste agli intervistati non m’erano sembrate incalzanti “fino in fondo”. Come posso dire? Avrei voluto poterli intervistare di nuovo io stesso, e porre altre domande. Ma ormai era troppo tardi: erano tutti morti. E a me restavano delle curiosità, dei buchi neri da riempire.
Come hai organizzato il tuo lavoro di ricerca e come l’hai combinato con i personaggi di fantasia da te inseriti?
La mia ricerca sulle vicende resistenziali e sui temi della Seconda guerra mondiale data da più di trent’anni ormai (per lo meno per quel che riguarda le regioni dell’Italia centrale). Per molto tempo l’ho fatto prioritariamente in termini – diciamo così – accademici (ricerche per l’università, per gli istituti di storia, ecc.). Poi da almeno una decina di anni in qua in altro modo: mi sono concentrato da un lato su storie locali, vicende minori o dimenticate, e dall’altro sulla sperimentazione di nuove forme di comunicazione della storia. Provo ad esplorare nuove strade, in genere alternative alla tradizionale pubblicazione cartacea: la radio, il teatro, i fumetti, la canzone, la documentaristica video. Ma anche altro: un paio di anni fa, a coronamento di un lavoro di quasi vent’anni, ho pubblicato – tramite la cooperativa sociale (e l’associazione culturale) con cui lavoro – il Cammino della Linea Gotica un portale web che invito i vostri lettori a visitare. Vi troveranno una proposta di itinerario (a piedi o in bici) che permette a chiunque di avvicinarsi in modo stimolante alle vicende e ai “luoghi di memoria” della guerra e della resistenza (www.camminolineagotica.it).Tornando alla partita di calcio, il mio lavoro di ricerca in sé e per sé non è stato lunghissimo: di tutto quel che riguardava le vicende della lotta partigiana in quella zona avevo già contezza (e materiali), mentre dell’episodio della partita, oltre alle suddette interviste c’è poco altro (sul web circolano alcune notizie, ma una parte di queste è molto imprecisa, per non dire di peggio).In quanto ai personaggi di fantasia… è stato un bel dilemma. Io di base sono un ricercatore di storia e ho sempre scritto secondo tale prospettiva: non mi sono mai avventurato, se non per gioco, nella narrazione tout court. Però questa vicenda mi interpellava in altro modo: a descriverla con gli strumenti e i linguaggi della storiografia “classica” sentivo che ci perdeva troppo. Voglio dire: c’era un episodio piuttosto singolare effettivamente accaduto in quella primavera del ’44 a Sarnano, ma… intessuto di tanti buchi neri e, col tempo, pure da diverse mitizzazioni.Dunque la questione era: come riempire questi buchi? Come dipanare le mitizzazioni?Allora ho deciso per questa piccola pazzia; mi son detto: va bé, provo a fare – in base alle conoscenze che ho – un’ipotesi realistica, ma proponendola sotto forma di racconto. A quel punto si rendeva necessario qualche personaggio di fantasia, ma verosimile: al termine del libro c’è una nota per spiegare cosa è documentato storicamente e cosa ho ipotizzato io, ma ci tengo a rimarcare che i personaggi inventati sono realistici, anzi in parte sono veri, nel senso che ho preso a prestito “pezzetti” di vite di persone realmente esistite. C’è solo un elemento che è veramente di pura fantasia (e non riconducibile alla verosimiglianza): il “doppio intento” – rispetto alla partita – che hanno i due partigiani inventati da me. Va bé, non vado oltre per non togliere il piacere della lettura a chi volesse leggere il libro, ma penso di aver chiarito.Ultima cosa da dire al riguardo: di recente ho letto un’altra ipotesi di ricostruzione dell’episodio, fatta da un ricercatore di Macerata. Secondo tale interpretazione la partita non si sarebbe svolta il primo di aprile ma almeno quindici o venti giorni dopo. E ciò in base alla considerazione dei reparti tedeschi che sarebbero stati presenti in loco in quel periodo. Ecco, io rispetto tale ipotesi, ma devo dire che non la trovo abbastanza convincente: resto dell’idea che la memoria dei testimoni su un punto così particolare sia da prendere per buona, e che la partita si sia giocata proprio sabato 1 aprile 1944.
Il libro è un’ottima occasione per conoscere meglio le condizioni di vita dei partigiani della zona e non solo: è questa un’altra tua finalità?
Senza dubbio. Se c’è un motivo vero che mi ha spinto è quello di raccontare le vicende della lotta partigiana, ma soprattutto gli uomini e le donne di quel tempo, di chi si trovò a vivere quei momenti drammatici e cruciali. E di farlo in modo semplice e possibilmente gradevole, nella speranza di catturare alla lettura i giovani. Quel che più mi interessa, da diversi anni in qua, è la comunicazione della storia, la trasmissione alle giovani generazioni.
A tal proposito il sacrificio di Decio Filipponi è una delle tante storie eroiche poco conosciute: credi che ci vorrebbe maggior memoria e divulgazione di sacrifici come il suo?
Beh… direi proprio di sì. Siamo in un’epoca che ha drammaticamente dimenticato il proprio passato, specie recente. Ci siamo scordati che c’è chi ha sacrificato la propria vita a vent’anni affinché noi oggi si possa vivere in un paese libero e democratico (poi dopo c’è pure chi sta lavorando da tempo in modo programmatico per far sì che tale memoria si sgretoli o almeno si annacqui; ma questo… è un altro discorso).Io sono convinto che solo a partire dalla conoscenza dei fatti, anche di quelli piccoli, secondari, i giovani possano farsi delle opinioni fondate, possano costruire uno spirito critico. E, soprattutto, possano comprendere l’importanza della difesa dei valori che sono alla base della nostra Costituzione repubblicana. In questo io mi ritengo, nel mio piccolo, uno storico militante: non ne ho mai fatto mistero. Il mio lavoro al fondo ha sempre questa finalità.
Ripensando alla partita di Sarnano che sensazione provi?
La sensazione che la storia, o meglio le vicende umane, anche laddove si accingono a toccare abissi di tragicità e di orrore (come durante i mesi dell’occupazione nazifascista), riservano sempre qualche sorpresa. Qualche risvolto singolare che sembra fatto apposta per ricordarci che l’animo umano è davvero insondabile al suo fondo. E che tutto sommato restiamo un mistero anche per noi stessi, a volte.
Credi che se la partita si fosse conclusa con una vittoria italiana ci sarebbero state ripercussioni? Quanto valeva la parola del sergente Kobler?
La mia opinione è che il sergente tedesco avrebbe mantenuto fede alla parola data. Ma non metterei la mano sul fuoco per i suoi giocatori. Voglio dire, in caso di vittoria italiana sarebbe anche potuta scoppiare una bella rissa tra i contendenti.
Anche in un periodo di grande tensione c’è chi pensa al calcio: credi che il calcio abbia davvero una valenza sociale così forte da far dimenticare orrori e privazioni?
Il calcio ha una valenza sociale fortissima. Oggi probabilmente è più di addormentamento (e addomesticamento) delle coscienze che altro, per lo meno nelle nostre società occidentali. E questo, sia chiaro, lo dico con estremo rammarico: sono innamorato del calcio da sempre, e a livello dilettantistico sono stato a lungo giocatore, e pure allenatore. Ma sfido chiunque a dimostrare il contrario.Tuttavia è innegabile che ad altre latitudini (e in altri tempi) il calcio è (è stato) ben altro: un formidabile strumento di riscatto sociale, di crescita, di formazione. Persino di liberazione. Ecco… io spero che torni ad esserlo anche dalle nostre
Rispondi