Intervista: Le Voci Della Domenica

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Interessante e significativo il libro di Roberto Pelucchi, il quale ripercorre dettagliatamente 90 anni di sport alla radio, affascinando il lettore tra ricordi, personaggi mitici e tanti richiami nostalgici ad epoche irripetibile. Ne abbiamo parlato con l’autore.

Le radiotrasmissioni italiane nascono raccontando l’ippica, ma è soprattutto con calcio, ciclismo e pugilato che diventano popolari: come spieghi questo indissolubile binomio?

Calcio e ciclismo sono gli sport più popolari in Italia, il pugilato lo è stato fino a qualche decennio fa, quando è stato in grado di proporre campioni di livello mondiale: oggi è inimmaginabile pensare a 18 milioni di italiani che si alzano alla 4 del mattino per ascoltare la radiocronaca di un match di pugilato, ma nel 1967 per Benvenuti-Griffith è successo. Il racconto del calcio e del ciclismo alla radio continua ad avere un fascino particolare, che neppure la televisione è riuscita a cancellare, quindi è del tutto naturale che ci sia ancora tanta gente che oggi non rinuncia ad ascoltare alla radio una partita o il Giro d’Italia.

Come descriveresti la relazione tra radio e regime fascista? Da strumento di propaganda la radio ha beneficiato dall’aurea del regime?

Il Regime ha subito compreso le potenzialità della radio come strumento di propaganda e sicuramente il fascismo ha avuto un ruolo fondamentale nel suo sviluppo nel nostro Paese. Ma credo che, in quel momento storico, la radio si sarebbe diffusa con la stessa potenza anche senza il fascismo. Più che Benito Mussolini è stato Nicolò Carosio, con le sue radiocronache immaginifiche, a diffondere la passione per la radio, almeno per quanto riguarda lo sport. La gente aveva voglia di “vedere” gli avvenimenti che si svolgevano anche a molti chilometri di distanza e la radio è stata “gli occhi” degli italiani. Tanto è vero che quando la Federcalcio impediva le trasmissioni delle partite per tutelare gli incassi delle società di calcio, la gente cercava modi alternativi per ottenere in tempo reale le notizie e, a volte, prendeva addirittura d’assalto le redazioni dei giornali.

I radiocronisti della “vecchia scuola” sembrano essere più flessibili e competenti anche per eventi diversi da quello sportivo: da cosa dipende secondo te questa eterogeneità di competenze e capacità?

Il motivo l’ha spiegato molto bene Sandro Ciotti in un’intervista: un tempo i giornalisti in forza alla redazione Radiocronache erano pochi e dovevano saper far tutto, seguire una gara ciclistica o un Conclave, una partita di calcio o un fatto di cronaca nera. E’ il motivo per il quale Carosio non fu mai assunto, ma pagato come collaboratore. Inoltre, prima l’Eiar e poi la Rai, compresero che un giornalista della carta stampata, seppur competente, non sarebbe stato necessariamente anche un buon radiocronista. C’era bisogno di una scuola, molto severa e molto formativa. E’ il motivo per il quale tutti i radiocronisti degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta e Settanta sono considerati ancora adesso inarrivabili. Oggi, purtroppo, non ci sono più scuole come quelle, e non ci sono più i Ferretti, gli Zavoli, gli Ameri e i Ciotti.

Il libro ci fa conoscere Giuseppe Sabelli Fioretti, a tutti gli effetti il primo radiocronista sportivo italiano. Come spieghi il fatto che tale primato gli venga spesso negato a favore di Nicolò Carosio?

Perché Sabelli Fioretti non era un radiocronista, era un giornalista della carta stampata prestato al nuovo mezzo. Con tutti i limiti. Carosio è stato invece a tutti gli effetti il primo, vero radiocronista sportivo italiano, con un lessico e un ritmo che, per molto tempo, sono stati presi a modello. Sabelli Fioretti è stato il primo sul calcio, ed è giusto riconoscergli questo primato, ma Carosio è diventato il numero uno agli occhi della gente.

Credi che la spontanea passione dei primi “improvvisati” radiocronisti, prima di Carosio, abbia avuto un ruolo decisivo nel far diventare la radio un fenomeno popolare?

No, non credo. Penso che i pionieri siano serviti a scatenare la passione, quella “voglia” che prima del 1927 era impossibile da soddisfare, ma è stato Carosio a fare diventare il calcio alla radio un fenomeno popolare. Poi Mario Ferretti ha fatto la stessa cosa con il ciclismo. E Paolo Valenti con il pugilato.

La “ Battaglia di Highbury” è la partita che ha consacrato Nicolò Carosio quale “voce” del calcio (e non solo)  italiano. Sei d’accordo? Credi che il suo concitato racconto abbia contribuito al clima di leggenda che aleggia intorno alla suddetta partita?

E’ sicuramente così. Fino al 14 novembre 1934 il nome di Carosio non era nemmeno conosciuto, come lui stesso ha detto più volte. Il suo nome non era mai citato né prima dell’inizio della radiocronaca né sui giornali. Fu con quella partita anche i giornali incominciarono a parlare di Carosio e la gente incominciò a conoscerlo. Il suo modo di raccontare quella battaglia sportiva, il suo inevitabile tifo, il suo patriottismo, hanno contribuito a rendere mitica quella partita e, in qualche modo, sono stati alla base dal suo successo.

Cosa ha permesso all’inventore della frase “Un uomo solo al comando” Mario Ferretti di diventare il miglior radiocronista di sempre, tanto da essere richiamato dopo l’allontanamento forzato post guerra?

Mario Ferretti è stato a detta di molti che hanno avuto la fortuna di ascoltarlo il migliore, non soltanto sullo sport, ma almeno fino al 1943 anche per i suoi reportage di guerra. Se non ci fosse stato Vittorio Veltroni a fare pressioni sui dirigenti della Rai, probabilmente Ferretti non sarebbe mai tornato al microfono. La frase “c’è un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”, pronunciata nel 1949 durante la Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia, è diventata leggendaria perché Ferretti, come Carosio, ha saputo fare presa sugli ascoltatori, ha saputo trasformare in qualcosa di epico una semplice corsa. E quando fai sognare la gente, la gente non ti dimentica più.

Le Olimpiadi di Roma sono state uno degli eventi principali di maggior successo raccontati dalla radio, nonostante la televisione fosse già presente in Itala, come lo spieghi?

La radio all’Olimpiade è in grado di passare da un campo di gara all’altro con una facilità che la televisione non poteva e non può avere. Inoltre, se alla radio durante la radiocronaca di una partita di calcio passi a raccontare gli ultimi chilometri di una gara ciclistica o gli ultimi secondi di una partita di basket, l’ascoltatore si esalta, mentre un telespettatore si infastidisce, perché magari è interessato soltanto a uno degli eventi. Il rimbalzo di linea, sullo stile di Tutto il calcio minuto per minuto, è fondamentale alla radio durante l’Olimpiade. Tiene alta la tensione dell’ascoltatore e gli regala mille emozioni.

Credi che il radiocronista perfetto sia davvero un mix di Enrico Ameri e Sandro Ciotti?

Probabilmente sì. Ameri aveva un ritmo e un pathos ineguagliabili, Ciotti una competenza e una capacità di descrivere un fatto “a braccio” che pochi altri hanno avuto. Stiamo parlando di due grandissimi, come Coppi e Bartali. Non c’è un migliore, si va a gusti personali.

Nel libro parli dell’attuale “caressismo”, volto a far diventare il radiocronista stesso l’evento: torneremo alla classe di un tempo e ad uno stile meno urlato?

Ogni epoca storica ha i suoi stili e i suoi modelli. Probabilmente non ce n’è uno migliore degli altri. Il “caressismo” è nato con la vittoria mondiale dell’Italia a Berlino, nel 2006, e ha fatto scuola tra i nuovi aspiranti radiotelecronisti, oltre ad aver fatto presa su una buona fetta di pubblico. Così come Carosio, con il suo stile, aveva fatto scuola e presa nella sua epoca. Quando è arrivato qualcuno migliore del vecchio Nick, anche lui ha incominciato a essere criticato. Bisogna accettare quello che piace al pubblico, senza restare ancorati al passato. Ma le telecronache di oggi non sono nient’altro che radiocronache con immagini, e questa è sicuramente un’altra vittoria della radio.

Personalmente ho sempre apprezzato lo stile di Riccardo Cucchi, da te definito “il modello di come dovrebbe essere un radiocronista del servizio pubblico”: è stato l’ultimo vero radiocronista sportivo di un certo livello?

Riccardo Cucchi, cresciuto fianco a fianco a una generazione di radiocronisti fenomenale (Ameri, Ciotti, Icardi, Provenzali, Ferretti, Giobbe, De Luca…), ha imparato dai migliori ed è stato tra gli ultimi a poter usufruire di una scuola, quella organizzata dalla Rai per il concorso del 1979. Oggi probabilmente Giovanni Scaramuzzino è il radiocronista che più gli si avvicina: non urla, non ambisce a sostituirsi all’evento. Francesco Repice è più moderno, più vicino allo stile che piace ai giovani. Come dicevo prima: ogni epoca ha i suoi modelli, è giusto rimpiangere il passato – se c’è da rimpiangerlo – ma è anche giusto assecondare i gusti del pubblico.

 

 

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