Intervista: I Pionieri Del Football. Storie Di Calcio Vittoriano 1863-1889

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Tre anni fa Simone Cola ci ha regalato il primo libro italiano sul calcio vittoriano, decisamente consigliato per chi vuole scoprire le origine del nostro amato calcio. Abbiamo avuto la possibilità di parlarne con l’autore.

Nel farti i complimenti per il primo e unico libro italiano sul calcio vittoriano ti chiedo come nasce la tua passione verso lo stesso e l’idea di farne un libro.

Ciao e grazie per l’interesse. Si, in effetti è il primo libro italiano – e la cosa ha stupito anche me – che va in dettaglio a trattare le origini del calcio, che affonda appunto le sue radici nell’Inghilterra vittoriana. Ho sempre amato scoprire “come iniziano le cose”, sono sempre stato appassionato di storia e di calcio, naturale che mi sia venuta la curiosità. La scintilla vera e propria però è scoccata un giorno in cui ho letto la storia di Archie Hunter, la prima stella dell’Aston Villa. Lì ho capito che potevano essere storie degne di nota, quindi ho constatato che nessuno aveva mai parlato del football nel XIX secolo e ho deciso di provare a farlo io.

Come hai gestito il copioso lavoro di ricerca e quali criticità hai affrontato?

È stato fondamentale stilare una timeline di tutti i vari avvenimenti e una scaletta per inserire e approfondire i numerosi personaggi che lo meritavano. Questo perché “Pionieri del football” non è una serie di storie ma un racconto unico, dal 1863 al 1889, dall’anno in cui nasce la Football Association a quello in cui si conclude il primo campionato professionistico. Come puoi immaginare non è stato semplice, molte fonti erano discordanti, molti calciatori, squadre ed episodi poco approfonditi. Mi sono aiutato molto con diversi libri in inglese sul tema e con un database che contiene informazioni su chiunque abbia indossato almeno una volta la maglia dell’Inghilterra. Una mano fondamentale me l’ha data Ian Rigby, storico ufficiale del Preston North End primo dominatore del calcio professionistico, ci siamo scritti forse un centinaio di mail ed è stato un aiuto preziosissimo per inserire molte curiosità addirittura introvabili sul web.

Secondo te come mia la fase calcistica da te raccontata è spesso ignorata o sottovalutata, nonostante da essa nasca il calcio come lo intendiamo ai nostri giorni?

Credo che la nostra epoca stessa sia la risposta, viviamo in un periodo in cui ci nutriamo di video, racconti, immagini. Nell’epoca vittoriana ovviamente queste cose erano inesistenti o pochissimo diffuse, per cui è difficile immaginare che Nick Ross, il più grande calciatore al mondo nel 1888, possa avere agli occhi della massa la stessa presa di un Ibrahimovic. Inoltre c’è la tendenza a credere che all’epoca il gioco fosse molto più semplice e alla portata di tutti, che porta a sminuire tanti eroi del football vittoriano: è vero in parte, ma certo è che il gioco era molto più rude e violento, le ricompense minori e non mancavano numeri ad effetto e competitività. Del resto è innegabile, tutto è nato da lì.

Collegandomi a questa domanda ti chiedo come mail la serie vincente del Preston North End sia quasi del tutto ignota ai più?

Il Preston North End fu il primo club a investire seriamente nel mondo del calcio, arrivando a costruire una squadra invincibile capace di dominare le prime due edizioni della Football League. Le cronache dell’epoca parlano di un gioco moderno, arioso, dove gli attaccanti si scambiavano di posizione in perfetta armonia. Crollò improvvisamente quando si scoprì che William Sudell, il manager, utilizzava per la squadra fondi che sottraeva ad alcuni suoi clienti a loro insaputa, finì persino in carcere per questo. Davvero non capisco come una storia così, antica e allo stesso tempo clamorosamente attuale, possa essere ignorata.

Uno dei personaggi più significativi è sicuramente Arthur Wharton, considerato il primo giocatore professionista di colore della storia: come consideri la sua storia rapportata ai nostri giorni?

Da quello che ho capito la società vittoriana non era smaccatamente razzista, altrimenti Wharton non avrebbe neanche potuto giocare. C’era nei confronti degli individui di colore, però, la ferma convinzione che fossero diversi da noi, meno intelligenti e quindi incapaci di mettersi alla prova in sport non basati sulla pura forza. Wharton patì per tutta la vita questa comune convinzione, non sempre spregiativa ma comunque capace di portare la folla a chiedere il suo allontanamento a ogni minimo errore. Il suo modo di reagire orgoglioso, poi, lo portò a essere inviso all’opinione pubblica.

Quanto dobbiamo noi appassionati di calcio alla passione e alla capacità organizzativa di Charles Alcock?

Dobbiamo tanto a tanti ferventi appassionati, personaggi che senza avere niente in cambio – ahimè, spesso neanche la memoria storica – hanno gettato le fondamenta per il gioco più bello del mondo. Arthur Pember, Robert Gardner, Arthur Kinnaird, John Hunter e molti altri hanno fatto tantissimo per la causa, ma è indubbio che più di tutti il merito sia da attribuire a Charles Alcock. Il quale, curiosamente, nella famosa riunione che sancì la nascita del calcio occupava un ruolo di secondo piano rispetto al fratello John. Trovatosi poi a ricoprire il ruolo di segretario, si prodigò giorno e notte per permettere al gioco di crescere ed espandersi. In Inghilterra lo chiamano “il padre dello sport moderno”, credo che sia un soprannome meritato e tutt’altro che esagerato.

A livello tattico la Piramide di Cambridge come ha influito sullo sviluppo dei moduli futuri? E’ corretto considerarlo il primo tentativo di codificare il gioco del calcio?

Il primo a codificare il calcio fu Robert Gardner, portiere della Scozia che nel 1872 affrontava l’Inghilterra nella prima gara tra Nazionali. Resosi conto che gli inglesi erano molto più robusti propose ai compagni di schierarsi con il 2-2-6 invece del consueto 1-1-8. La Piramide di Cambridge fu una variante successiva ma forse la più importante, perché l’arretramento di un attaccante a centrocampo (la Piramide è un 2-3-5) creò il ruolo del regista e degli interni, nonché quello del centravanti. Insomma, una mossa epocale, la base da cui poi sono stati creati Metodo, Sistema e via dicendo.

A livello di stile di gioco trovi più affascinante il “passing game” di matrice scozzese o il “Kick and Run” tipico inglese? Quale è maggiormente connesso al calcio vittoriano da te descritto?

Inizialmente in Inghilterra giocavano tutti con il “kick and run”: era una questione culturale, i primi calciatori erano lavoratori professionisti che si vedevano soltanto in occasione delle gare, individui cresciuti in scuole dove il coraggio individuale e l’onore contavano ben più del risultato. Il fatto che uno stile di gioco basato esclusivamente sulla prestanza fisica e sul dribbling fosse svantaggiato rispetto alla manovra corale e accorta fu evidente da subito, ma orgogliosamente gli inglesi continuarono per anni a giocare alla loro maniera. Quando infine si convinsero, dopo una serie di batoste, presero a chiamare calciatori scozzesi, i famosi “scotch professors”, per imparare il segreto di un gioco che in Scozia aveva invece preso piede subito data la natura decisamente più popolare del football da quelle parti. Gli scozzesi che si “vendevano” agli inglesi furono la molla che avrebbe portato al professionismo.

Nel tuo lavoro di ricerca e preparazione del libro ci sono aspetti che ti hanno sorpreso o che ti aspettavi diverse?

Moltissime cose mi erano sconosciute quando ho iniziato a scrivere. Ad esempio il fatto che per mezzo secolo circa il portiere abbia potuto toccare il pallone con le mani nella propria metà campo, che inizialmente non esistessero traverse o reti, che il gioco fosse molto più violento e comprendesse le cariche sul portiere. Al contrario io immaginavo gare tra gentiluomini raffinati ed estremamente sportivi. La cosa che mi ha colpito di più è stata però una cosa in positivo: l’enorme passione di questi pionieri, che amavano visceralmente il football e per cui molti hanno speso l’intera vita. Nel mio piccolo ho voluto rendere loro omaggio, spero di esserci riuscito.

Nel calcio “viziato” dei nostri giorni la realtà da te descritta può essere formativa?

Credo di si, proprio perché si parla di uomini che vivevano di passione. Per carità, se lo potevano permettere, inoltre io sono tutt’altro che nostalgico e innamorato dei “bei tempi andati”. Per me il calcio è calcio, sempre, ieri come oggi, ma certo è che scoprire come un tempo fosse tutto così diverso eppure così incredibilmente uguale – campioni strapagati, stadi pieni, polemiche con arbitri e giornalisti – aiuta secondo me ad avere un giudizio equilibrato su quello che è il calcio moderno e su quello che è stato in tempi antichi. Oggi come allora uno sport meraviglioso, capace di raccontare storie spettacolari e di regalare emozioni fortissime.

 

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