Intervista: Stelle Di David

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Davvero molto interessante il libro di Niccolò Mello, che descrive nel dettaglio la figura di fondamentali allenatori di origine ebraica. Ne abbiamo approfondito i contenuti con l’autore.

Nel farti i doverosi complimenti per il libro ti chiedo come è nata l’idea/esigenza di esaltare le figure di questi leggendari allenatori di origine ebraica.

Innanzitutto ti ringrazio per i complimenti. Per quanto riguarda il libro sapevo già grazie a precedenti studi e letture che molti allenatori dei primi decenni del ‘900 erano di origine ebraica e provenivano dalla Mitteleuropa. Ma non è qualcosa che deve sorprenderci: la cultura ebraica si è sedimentata e ha influenzato il pensiero occidentale in tanti aspetti del sapere, sport e calcio compresi.

Ho molto apprezzato come hai allargato l’influenza di questi personaggi nello sviluppo del gioco del calcio e nella crescita di eccelsi campioni. In ragione di ciò ti chiedo quanto il loro approccio mentale sia stato fondamentale?

L’approccio mentale è stato un aspetto basilare, unito ovviamente a quello tecnico e quello tattico. Il filo comune che unisce queste grandi figure, oltre alla matrice ebraica o proprio in conseguenza di essa, è rappresentato dalle straordinarie intuizioni che avevano. Erano tutti maestri della panchina e – chi più, chi meno – hanno avuto una carica innovativa e offerto un contributo non secondario per lo sviluppo del gioco.

Come mai secondo alcuni di essi sono quasi degli sconosciuti al grande pubblico (ad esempio Lippo Hertzka)?

In parte perché si tratta di tecnici lontani nel tempo, che allenavano in un’epoca pretelevisiva: non c’è dubbio sul fatto che la tv abbia contribuito in modo determinante alla diffusione e alla conoscenza su scala planetaria del calcio. Questo vale per i giocatori, per le squadre e per gli allenatori. Nel caso di Hertzka credo sia poco conosciuto in Italia, mentre nei Paesi dove ha allenato (Spagna e Portogallo) ha sicuramente una considerazione maggiore. Perlomeno da parte di addetti ai lavori e studiosi. E’ chiaro che l’appassionato con una cultura media del calcio fatichi a conoscere certi nomi, ma questo perché, come spiegavo prima, l’appassionato medio non è spinto dalla passione e dalla voglia di sapere cosa sia stato il calcio prima di una determinata epoca.

Molti degli allenatori da te descritti mischiano sapientemente i dettami del Metodo e Sistema. E’ questa uno dei segreti della loro grandezza?

Può darsi, ma questo è un’ulteriore dimostrazione della loro intelligenza e della capacità di saper unire più filosofie di gioco. Chi seppe mescolare brillantemente Metodo e Sistema fu ad esempio Arpad Weisz, che vinse lo scudetto all’Inter e al Bologna e lanciò “Peppin” Meazza, prima di finire inghiottito nell’inferno di Auschwitz.

Questa loro flessibilità tattica è ben spiegata negli schemi grafici da te riportati. Quanti anni erano avanti questi allenatori sotto questo punto di vista?

Come spiegavo prima, sono stati tutti allenatori innovativi. Hanno proposto un calcio che era lo specchio delle zone da cui provenivano, questo perché ogni filosofia di gioco riflette le caratteristiche della nazione in cui si sviluppa. Come scrivo nel mio libro, gli ebrei del Danubio sono stati un po’ i padri degli olandesi degli anni ‘70 perché proponevano un football fatto di passaggi corti, rapidità, movimenti senza palla, sovrapposizioni e flessibilità tattica.

Un tratto comune di questi personaggi è la grande cultura personale, quasi fosse una peculiarità per meglio gestire l’attività di tecnico, sei d’accordo?

Sicuramente. Erano tutte persone di cultura e che se non fossero riuscite a imporsi nel mondo del calcio avrebbero potuto diventare personalità di spicco in altri ambiti. Molti di loro erano laureati. Il fatto di aver studiato tanto, e non solo calcio, li ha avvantaggiati sia nel rapporto con i calciatori sia nella capacità di saper proporre idee innovative e non consuete. Questi allenatori ebrei sono stati la dimostrazione che il pensiero di Mourinho («Chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio») è assolutamente vero.

Personalmente conoscevo parzialmente la figura Lajos Czeizler, mentore del Milan del Gre-No-Li. Lo possiamo definire uno dei padri del calcio offensivo e per certi spregiudicato?

Lo possiamo definire come il padre del Milan squadra europea per eccellenza tra quelle italiane, che predilige un gioco d’attacco. Il presidente dei rossoneri Trabattoni aveva l’ambizione di costruire una formazione che seguisse il filone di un calcio d’iniziativa, prendendo come esempio il Grande Torino, e che diventasse un’alternativa credibile sul piano dei risultati ai cugini dell’Inter. L’arrivo di Czeizler fu indispensabile per raggiungere entrambi questi obiettivi.

Pochi ricordano che personaggi come Bela Guttmann e Imre Hirschl hanno lasciato il segno anche in Sudamerica, ambiente davvero agli antipodi rispetto alla realtà europea, come lo spieghi?

Forse Hirschl è meno conosciuto perché il River Plate è diventato grande e famoso con il soprannome “La Maquina” sotto le gestioni di Cesarini e Minella e non con lui. Il tecnico ebreo-ungherese, che vinse due titoli argentini nel 1936 e 1937, fu il padre tattico di quel progetto, contribuì a forgiare la mentalità e quell’attenzione difensiva che divenne la base dei successi nel decennio successivo: non dimentichiamo che il River della Maquina chiuse con la difesa meno battuta del campionato in 5 campionati su 7. Non solo: fu Hirschl, sublime scopritore di talenti, a valorizzare in prima squadra i giovanissimi Moreno e Pedernera, che sarebbero diventate le due stelle assolute della Maquina. Guttmann invece credo paghi il fatto che si sia consacrato a livello internazionale soprattutto al Benfica con la vittoria delle due Coppe Campioni consecutive. Questo ha un po’ offuscato le sue altre imprese, dalla Mitropa Cup (la Coppa Campioni dell’era prebellica) all’Ujpest nel 1939 al fatto che le sue idee abbiano contribuito a formare due delle massime nazionali mai viste, l’Ungheria degli anni ‘50 e il Brasile ‘58, e due dei più grandi geni della storia, Puskas e Pelé.

Concludi il libro con una vena pessimistica sul futuro del calcio: davvero dalla vita e dai dettami di queste Stelle di David non abbiamo imparato nulla?

La mia vena pessimistica è legata alla direzione che sta prendendo il calcio di oggi, sempre più legato al business e ai soldi. Spero non si arriverà mai alla Superlega o alla Champions a inviti, che per me sarebbero la definitiva rovina del calcio per come l’ho conosciuto e amato. Io sono ancora legato all’idea del vecchio formato della Coppa Campioni, dell’identità nazionale, della valorizzazione dei vivai, del Mondiale come competizione massima sia per gli aspetti tecnici sia iconici, della numerazione classica dall’1 all’11. Mi rendo conto sia una visione un po’ anacronistica, però il calcio di oggi non mi piace e la sensazione è che mi piacerà sempre meno in futuro. Continuo a seguirlo solo per le emozioni che può ancora regalare sul campo, anche se non sempre. Ad esempio vedere giocare Messi, che – al netto di qualche limite carismatico – lo ritengo un genio fuori dal tempo, forse l’ultimo eroe romantico, mi consente di rimanere ancora innamorato di questo sport meraviglioso che ha perso da tempo la sua innocenza ma conserva un grande fascino.

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