Due grandi esperti del contesto sovietico come Mario Alessandro Curletto e Romano Lupi approfondiscono i contenuti del loro interessantissimo libro su Šostakovič.
Dal libro sembra emergere un ruolo calcio come autentica valvola di sfogo per Šostakovič, talmente importante da sfociare quasi nell’ossessione statistica, è complessivamente corretto?
Curletto: In particolare nei periodi difficili, quelli in cui il compositore era oggetto di pesanti attacchi a mezzo stampa (naturalmente orchestrati dall’alto) e nell’ambiente musicale intorno a lui si faceva terra bruciata, la frequentazione degli stadi e la meticolosa cura, lo scambio delle notizie e dei dati statistici relativi al calcio sovietico costituivano per lui uno svago e in sostanza l’unica possibilità di socializzazione. Infatti la maggior parte degli amici “calcistici” di Šostakovič, come lui autentici cultori della materia, era estranea all’ambiente della musica. L’esigenza di classificazione, di sistematizzazione probabilmente faceva parte del carattere di Šostakovič, ma la sua passione per il calcio non riguardava solo la dimensione statistica. Šostakovič era in grado apprezzare il gesto tecnico, la combattività, l’affidabilità e la sagacia tattica dei calciatori, e per alcuni di essi provava sincera ammirazione anche dal punto di vista umano.
Lupi:Riguardo a Šostakovič non parlerei di “valvola di sfogo”. Nella parte iniziale del libro, infatti, si vede come il calcio, in Unione Sovietica, sia stato visto da molti intellettuali e artisti come un forma d’arte. Probabilmente, ma di questo non ne siamo certi al cento per cento, Šostakovič ha assorbito una certa influenza in questo senso. La sua ossessione statistico-compilativa, invece, è molto influenzata dal bisogno quasi fisiologico di scrivere costantemente qualcosa, tanto in ambito musicate quanto in ambito epistolare.
Quanto secondo voi il calcio ha influenzato l’attività di composizione e viceversa?
Curletto: Sof’ja Chentova, amica di Šostakovič e sua principale biografa, ha scritto, con il conforto dei dati statistici, che nei periodi (parliamo di settimane e talvolta anche di giorni) in cui il compositore era particolarmente gratificato da qualche memorabile evento calcistico a cui aveva assistito allo stadio, la sua vena creativa si esaltava. Di una influenza in senso inverso, non ho notizia, almeno a quanto mi è dato di ricordare.
Lupi: La sua produzione è immensa – sia quantitativamente che qualitativamente – ma il calcio ne ricopre una piccolissima parte. È sorprendete rilevare come un musicista, forse influenzato dal clima culturale che si respirava in URSS a quel tempo, gli abbia dedicato un balletto così importante come “L’età dell’oro”.
In tal senso come possiamo interpretare la sua patriottica “Settima Sinfonia”?
Curletto: Di interpretazioni ideologiche della “Settima Sinfonia” ce ne sono state molte, anche totalmente contrastanti tra loro. Personalmente ne prendo atto e mi astengo da ogni commento non avendo né competenze specifiche né particolare interesse per l’argomento. Segnalo soltanto che il 15 settembre del 1942 viene pubblicato in prima pagina da “Krasnyj sport” (“Sport rosso”) un articolo firmato da Šostakovič, in cui, prendendo spunto da una partita giocata dalla Dinamo Leningrado, giunta dalla propria città ancora cinta d’assedio dal nemico, contro la Dinamo Mosca, i calciatori leningradesi, vengono celebrati come eroici difensori della città, e per ognuno viene puntualmente indicata l’arma di appartenenza, in uno scrupoloso esercizio di equa distribuzione degli onori. Del resto, alla sopravvivenza del calcio nella Leningrado assediata, di cui molto si è scritto, fu attribuito un forte significato dimostrativo, simbolico, di resistenza.
Lupi: Pur non avendo un contatto diretto con il calcio, la “Settima Sinfonia” ha qualcosa in comune con questo sport. Scritta nel 1941 durante l’assedio nazista di Leningrado le sue esecuzioni durante la Seconda Guerra Mondiale hanno avuto un ruolo importante per rinfrancare il morale della popolazione e dell’esercito russo; giocare a calcio durante il conflitto aveva lo stesso scopo. Per il governo sovietico tenere concerti e disputare partite durante il periodo di guerra era molto importante, non solo per cercare di mantenere elementi di normalità in una situazione che di normale non aveva assolutamente nulla ma anche a livello propagandistico. Bisognava dimostrare al nemico che, nonostante le atrocità commesse, i sovietici non si piegavano.
Lo spettro del formalismo può averlo frenato nel coniugare artisticamente le sue due grandi passioni?
Curletto: Di certo l’accusa di formalismo limitò pesantemente, almeno per un determinato periodo, la libertà creativa di Šostakovič, ma bisogna dire che anche per il Šostakovič compositore d’avanguardia coniugare la propria musica con la tematica calcistica non fu semplice, come dimostra la laboriosa, tormentata gestazione del balletto L’età dell’oro. Peraltro, nella musica di scena Futból, facente parte della suite Il fiume russo scritta daŠostakovičnel 1944 per lo spettacolo Il grande fiume allestito dalla Compagnia di Canti e Danze dell’NKVD (Commissariato Popolare agli Interni), l’incontro di calcio è una festa, resa da una musica brillante e gioiosa, stilisticamente accostabile alle colonne sonore delle commedie musicali sovietiche dell’epoca staliniana, con un attacco che fa pensare alla Marcia del calcio (Futbol’nyj marš), le cui note spumeggianti dal 1938 hanno accompagnato l’ingresso e l’uscita dal campo delle squadre in occasione di ogni partita del campionato sovietico di calcio, e continuano oggi ad adempiere la medesima funzione nella Prem’er-liga russa. La Marcia del calcio fu scritta da Matvej Blanter, un amico di Šostakovič, che l’aveva ascoltata in anteprima e l’apprezzava molto. Secondo alcune testimonianze, affermò anche che avrebbe voluto scriverla lui una Marcia del calcio, ma l’amico lo aveva preceduto, e con ottimi risultati.
Lupi: Non credo. Anche in relazione ad altri artisti, il calcio è stato rappresentato durante le avanguardie e nel periodo del realismo socialista.
Si evince un rapporto tormenta con la patria sovietica: da un lato l’orgoglio di aver contribuito alla resistenza da pompiere, dall’altro la presunta gioia per la sconfitta dell’URSS contro la Jugoslavia alle Olimpiadi del 1952. Come interpretate tale tormentato sentimento?
Curletto: Come ho scritto nel libro, personalmente non credo al racconto dell’amico di ŠostakovičIsaak Glikman sui loro “festeggiamenti” per la sconfitta dell’URSS contro la Jugoslavia alle Olimpiadi del 1952. Trovo inverosimile che due raffinati e cauti intellettuali quali Dmitrij Šostakovič e Isaak Glikman, organicamente inseriti, ai massimi livelli, nell’apparato culturale staliniano, si siano ubriacati in pubblico di primo mattino in un luogo pubblico, scolandosi una bottiglia di cognac per festeggiare una sconfitta, sia pure solo sportiva, dell’URSS contro la Jugoslavia del traditore Tito. La spiegazione che lo stesso Glikman dà di questo comportamento“bizzarro”, mi pare artefatta. Non soloŠostakovič doveva rendersi conto, da perfetto conoscitore della logica perversa del sistema di potere staliniano, di quali pericoli incombessero sui calciatori della nazionale sovietica, molti dei quali egli conosceva personalmente, ma sia Šostakovič sia Glikman, certamente, tenevano alla propria incolumità personale. Ricordo peraltro che Isaak Glikman, a differenza di Šostakovič, attraversò tutta l’epoca staliniana ricoprendo cariche di alto prestigio culturale senza mai cadere in disgrazia. La pubblicazione del libro in cui Glikman racconta l’episodio in questione risale al 1993, ovvero un momento (durato un decennio, per la verità) in cui l’imperativo categorico per la maggior parte dei personaggi pubblici era abiurare il proprio passato comunista. Questo semplice meccanismo funzionava in politica (con il presidente El’cin e tutta la serie di ex gerarchi sovietici che, sull’esempio del presidente russo, spadroneggiavano praticamente in tutti i paesi dell’ex URSS in alleanza con la grande criminalità) come nella cosiddetta società civile. Naturalmente personaggi che nell’URSS avevano avuto grande rilievo, ma non erano più in vita, non potevano rinnegare il proprio passato, e venivano sottoposti a una sorta di damnatio memoriae: mi viene in mente, nel calcio, l’esempio di Lev Jašin. Credo che con questa e altre “rivelazioni” contenute nel suo libro (raccolta di lettere inviategli da Šostakovič con dettagliati commenti) Glikman volesse confezionare un passato anticomunista per l’amico grande compositore, ma anche e soprattutto per se stesso.
Lupi: Secondo me il rapporto non era affatto “tormentato”. La gioia per la sconfitta dell’URSS contro la Jugoslavia alle Olimpiadi di Helsinki, a mio avviso, è una balla. Abbiamo riportato questa versione dei fatti per puro dovere di cronaca e per completezza, ma nel libro abbiamo anche precisato che crediamo poco a testimonianze come questa che, guarda caso, sono tutte saltate fuori dopo la fine dell’URSS. Nel 1948 Šostakovič è stato incaricato da Stalin in persona di andare in delegazione negli Stati Uniti per rappresentare l’Unione Sovietica al Congresso per la Pace nel mondo. Se non fosse stato un uomo di massima fiducia, il Cremlino di fine Anni Quaranta non lo avrebbe mai incaricato. Durante il viaggio negli USA avrebbe potuto comportarsi come altri intellettuali diventati “paladini della libertà”: dichiararsi dissidente e chiedere asilo politico. Magari facendosi concedere un esilio dorato negli Stati Uniti. Se ciò fosse accaduto sarebbe stato un grande danno d’immagine per Stalin e tutta l’URSS. Cosa che, a livello di immagine, non si sarebbero assolutamente potuti permettere. E poi c’è un altro elemento di grande novità riportato nel libro: la stesura di musiche da parte di Šostakovič per conto della compagnia di canti e balli popolari dell’NKVD, l’antesignano del KGB. Aspetto, quest’ultimo, che testimonia una certa vicinanza ai vertici del potere sovietico.
Come spiegate il tono competente ma quasi fanciullesco dei sui rapporti epistolari calcistici, tenuto conto del suo naturale aplomb?
Curletto: Tendo a spiegarlo con una passione veramente profonda e con il sollievo di potersi esprimere con una certa libertà (sia pure, in qualche occasione, istintivamente guardinga) rivolgendosi a persone che condividevano lo stesso culto per il calcio. Aggiungo una considerazione personale: trovo piacevolmente sorprendente in fatto che un personaggio pubblico di rilevanza mondiale, considerato, in URSS come in Occidente, uno dei più grandi compositori della sua epoca, non fosse tutto concentrato sulla propria persona, ma conservasse la capacità di entusiasmarsi per le vicende di un fenomeno della cultura di massa come il calcio e avesse un’alta considerazione di alcuni dei suoi protagonisti.
Lupi: Con il suo “naturale aplomb”, che ben si attaglia ai suoi resoconti calcistici caratterizzati dal distacco nell’analisi delle partite e delle prestazioni dei singoli. Il fatto di crescere (sia come uomo che come artista) non gli ha impedito di soffocare una passione nata durante l’infanzia e cresciuta nel corso della gioventù. La sopravvivenza in lui di questo spirito mi ricorda il fanciullino del Pascoli. Pensare che uno dei più grandi compositori nella storia dell’umanità a trenta, quaranta, cinquanta e sessant’anni facesse per il calcio quello che io facevo a dieci rende la sua figura a me parecchio simpatica e storicamente molto interessante.
Šostakovič si definisce un amante del calcio ed un simpatizzante delle squadre di Leningrado, ma ad oggi viene indicato come tifoso dello Zenit (come da striscione per i 110 anni dalla sua nascita nel 2016), come lo spiegate?
Curletto: In effetti, a quanto emerge da tutti i documenti (lettere, articoli, testimonianze, frequentazioni), la prima squadra del cuore di Šostakovič, a partire almeno dalla metà degli Anni Trenta, fu la Dinamo Leningrado, formazione in cui militavano alcuni giocatori da lui particolarmente apprezzati e con cui iniziò a intrattenere rapporti amichevoli, primo fra tutti la mezzala sinistra Valentin Fëdorov, suo interlocutore principale nell’ambito della squadra. Dopo lo scioglimento della Dinamo Leningrado (1954) sull’onda di una crisi che investì il club sportivo del Ministero degli Interni a livello nazionale in seguito alla fucilazione del suo presidente onorario e grande protettore, Lavrentij Berija (1953), come dimostra il suo epistolario, Šostakovič cominciò a seguire con trepidazione le sorti delle Trudovye Rezervy, club calcistico creato a Leningrado proprio nel 1954, nel quale era confluita la maggior parte dei giocatori della locale Dinamo. Le Trudovye Rezervy erano state inserite subito in classe A e sopravvissero, con alterne fortune, fino al 1960, quando furono sciolte dalla Federazione Sovietica di Calcio in coincidenza con la ricostituzione della Dinamo Leningrado, che tuttavia ebbe un’esistenza molto stentata, restando ben lontana dai livelli precedenti al 1954. (Tra l’altro, oggi la Dinamo Pietroburgo non esiste più e i suoi diritti sportivi sono stati rilevati dal Soči, che gioca nelle seconda serie del calcio russo). Quando lo Zenit restò dunque l’unica squadra a rappresentare Leningrado nella massima serie sovietica, Šostakovič concentrò tutte le sue simpatie per il calcio leningradese sullo Zenit. E’ evidente che aun club dal passato sovietico non certo carico di vittorie, quale è lo Zenit, un tifoso così eminente fa molto comodo, fa curriculum, conferisce uno spessore storico e culturale.
Lupi: Perché oramai il calcio di San Pietroburgo è praticamente solo Zenit. Ai suoi tempi non era così perché a Leningrado c’erano diverse squadre, alcune delle quali scomparse nel corso degli anni. Il fatto che la figura di Šostakovič oggi venga esclusivamente identificata con lo Zenit, però, non ci impedisce di pensare che, se fosse ancora vivo, potrebbe anche seguire tutte le altre squadre di San Pietroburgo impegnate nelle categorie minori. In fin dei conti, non era tanto un “tifoso sfegatato” quanto un amante del calcio inteso come sport, un appassionato disposto ad andare a vedere partite di qualunque squadra e in qualunque categoria.
Il contesto globale che traspare è quello di un grande passione popolare per lo sport in generale, maggiore anche delle intenzione propagandistiche governative: è questo il quadro corretto nel quale inserire la passione di Šostakovič?
Curletto: Sì, la pratica sportiva in URSS era largamente praticata e differenziata, a di là delle alte funzioni pedagogiche che il potere le attribuiva. Già negli Anni Venti, quando qualche teorico della cultura proletaria condannava lo sport agonistico come pericolosa apologia dell’individualismo, lo sport aveva già assunto le proporzioni di un vero e proprio fenomeno di costume: gli atleti, uomini e donne, erano i modelli preferiti da scultori e pittori, la perfetta incarnazione dell’umanità nuova prossima ventura. Nel generale trionfo estetico e ideologico dell’attività fisico-sportiva, il calcio, come sport più amato a livello popolare (l’hockey, inteso come disco su ghiaccio, sarebbe sbarcato trionfalmente in URSSsolo nel primo dopoguerra) continuò ad avere il ruolo preminente che aveva conquistato già in epoca prerivoluzionaria.
Lupi: Per quanto riguarda il calcio sicuramente, in merito ad altri sport non saprei. Anche perché noi abbiamo esaminato solo questo sport. Un’analisi del suo rapporto con altre discipline richiederebbe molto tempo. In fin dei conti, il materiale relativo al calcio è di per sé sterminato. Per quanto riguarda il contesto, penso sia importante rilevare come la sua passione nasca e cresca a Leningrado, città dove il calcio russo è nato ma, in epoca sovietica, calcisticamente molto più arretrata rispetto a Mosca o Kiev.
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