Nell’anno in corso Matteo Bruschetta ci ha proposto due libri relativi alle piccole nazionali che in qualche modo hanno comunque fatto la storia dei Mondiali.
Abbiamo approfondito i contenuti con un disponibilissimo Matteo.
Un libro sulle peggiori nazionali della storia dei Mondiali (I MONDIALI DEI VINTI) ed uno sulle “piccole” esordienti alla medesima rassegna (CENERENTOLA AI MONDIALI) .Come nasce questo progetto?
Sin da bambino, ho sempre considerato i Mondiali come la rassegna calcistica più affascinante e interessante. Non a livello calcistico e tecnico, ma per le tante storie e aneddoti curiosi che si nascondono dietro ogni nazionale partecipante. Documentandomi su varie nazionali ‘minori’, ho scovato chicche e curiosità notevoli e ho pensato di dedicare un libro a nazionali di cui difficilmente si parla, le peggiori della storia dei Mondiali e le cenerentole. Per quanto riguarda i ‘vinti’ ho semplicemente consultato la classifica Fifa e parlato delle 10 nazionali che hanno ottenuto meno punti (solo uno, strappato dalla Bolivia nel 1994). Ho invece scelto personalmente le dieci ‘cenerentole’ che nascondevano le storie più curiose, non solo a livello calcistico (vedi il Sud Africa post apartheid). il libro a cui sono più affezionato è il primo che ho scritto, I Mondiali dei vinti, perchè ho un debole per gli ultimi, i perdenti, anche se a ben guardare per queste nazionali partecipare ai Mondiali è stato comunque un successo. Il libro più divertente da scrivere è stato invece “Cenerentola ai Mondiali”, perchè ho scelto io le squadre di cui parlare, come ad esempio la Giamaica del 1998, una storia davvero unica.
Quali sono le storie che più hai apprezzato o che più di hanno colpito per la loro complessità?
Difficile fare una classifica, ciascuna vicenda mi ha appassionato. A livello politico e sociale, mi ha colpito molto la storia della Costa d’Avorio del 2006, non perchè fosse una nazionale folkloristica, ma per gli intrecci tra guerra civile e calcio e il ruolo di Didier Drogba nell’avvicinare le due fazioni contrapposte. Se questa è una storia a lieto fine, mi ha colpito invece in negativo la vicenda dell’Iraq e delle sevizie e torture alle quali erano sottoposti i calciatori, e più in generale gli sportivi iracheni, durante la dittatura di Saddam Hussein. La nazionale infine a cui sono più vicino ‘sentimentalmente’ è El Salvador 1982, la peggiore di tutte. Non era una nazionale scarsa, ma lo è diventata solo per avere avuto la sfrontatezza di giocare all’attacco e non limitandosi a chiudersi a riccio in difesa. Una prova di coraggio che ho molto apprezzato, ma che purtroppo è costata caro ai giocatori salvadoregni, in particolare il giovane portiere Ricardo Guevara Mora.
La scelta della narrazione in prima persona (come se fosse il protagonista di turno a raccontare le vicende) è sicuramente particolare. Qual è la ragione per la scelta di tale modalità?
Quando ho iniziato a scrivere, la mia idea era di scrivere in terza persona, con un certo distacco emotivo. Una volta che sono andato più a fondo però, ho pensato di scrivere in prima persona perchè non volevo limitarmi a raccontare le vicende calcistiche, ma trattare anche la storia personale di un giocatore in particolare per ciascuna squadra. Ho trovato curiosa ad esempio la vicenda di Richmond Forson, che giocò tre partite ai Mondiali 2006, pur militando nella sesta serie francese. Un vero e proprio dilettante. Ho pensato che parlare della sua avventura in prima persona meglio si adattasse alla sua vicenda personale. Lo stesso si può dire per le avventure di Bora Milutinovic o Carlos Alberto Pareira in giro per il Mondo.
Nelle realtà da te raccontate quanto la voglia di emergere da situazioni politico-sociali particolari o limitative ha giocato un ruolo fondamentale nell’ottenimento della qualificazione?
Sin dalle antiche olimpiadi di Atene, sport e politica sono andate di pari passo, dunque ho dato spazio a questo intreccio, quando lo ritenevo opportuno.In molte vicende narrate, la situazione politico-sociale incide, nel bene o nel male, nelle vicende delle nazionali protagoniste. In alcuni casi, come lo Zaire ’74, il dittatore di turno (Mobutu) ha usato il calcio come strumento per ottenere popolarità tra i suoi concittadini, salvo poi smembrare la squadra dopo la figuraccia a Germania ’74. La politica ha invece azzoppato il calcio in Iran per oltre un decennio, quello successivo alla Rivoluzione Khomeinista. Considerando tutte le venti storie raccontate, posso affermare che la dittatori, politici e dirigenti avidi e incompetenti abbiano più che altro complicato le cose ai giocatori, tra bonus non pagati, minacce e punizioni esemplari.
Dai tuoi due libri si respirano valori che il calcio-business dei nostri giorni ci ha fatto dimenticare: provi in tal senso più nostalgia o rabbia?
Nonostante tutto, il calcio ‘moderno’ continuo a seguirlo, pur non leggendo molti quotidiani o siti web, e senza particolare coinvolgimento emotivo. Un vero colpo al cuore per uno cresciuto a pane e Gazzetta e che ha imparato a leggere con le figurine Panini. Mi limito dunque a guardare le partite, specie quelle delle nazionali, nel tempo libero.Non provo rabbia, perchè evidentemente se il calcio ‘vende’ e attira sempre più pubblico, è un po’ quello che ci meritiamo. Ovviamente mi piacerebbe fare qualche passo indietro, ma mi rendo conto che non è possibile. L’unica soluzione per non ‘essere complice’ sarebbe quella di smettere del tutto di guardarlo/Riguardo alla nostalgia, è un sentimento impossibile da riporre nel cassetto. I ricordi di quando ero ragazzino sono ben impressi nella mia mente. Un esempio? Il primo Mondiale che ho seguito è stato Italia ’90, adoravo il Camerun di Roger Milla e la Jugoslavia di ‘Piksi’ Stojikovic. Quest’ultimo è scomparso dai radar, è andato a giocare in Giappone e fino a Francia ’98 non ho più avuto notizie di lui. Cosa voglio dire? Che al tempo era molto più complicato trovare notizie e potevi viaggiare molto di più con l’immaginazione.Oggi con internet è molto più semplice documentarsi, ma vengono forse meno la curiosità e lo stupore. Uno dei motivi per cui scrivo libri riguardo al passato, è perchè trovo sia piu’ intrigante, difficile, ma allo stesso tempo stimolante.
Nel 2026 il Mondiale passerà a 48 squadre: secondo te è effettivamente la possibilità per nuovo realtà di emergere o si tradurrà in un evidente calo qualitativo della rassegna?
Da un alto sono felice che tante nazionali americane, asiatiche e africane possano partecipare ai Mondiali. Confrontarsi con i più forti può sicuramente aiutare a crescere queste piccole realtà. A livello di pubblico, credo sia una buona notizia, ci sarà piu’ coinvolgimento in nazioni che solitamente stanno a guardare gli altri che giocano.Nutro però seri dubbi riguardo all’innalzamento della qualità, specie guardando a quanto accaduto agli Europei allargati a 24 squadre. Il numero perfetto credo sia 32. Allargare il Mondiale a 48 rende molto più facile la qualificazione, che invece un tempo (Mondiale a 16 o 24 squadre) era molto più complicata e di conseguenza anche molto più festeggiata. Per piccole realtà come Haiti o Trinidad e Tobago solo il fatto di partecipare, equivaleva a vincere la Coppa.
L’anno prossimo si terrà la Coppa d’Asia con gli esordi di Kirghzistan, Filippine e Yemen, con la Siria che ritorna a parteciparvi pur vivendo una situazione drammatica: può essere materiale per un tuo nuovo libro?
Grazie per l’idea. La storia della Siria, in particolare, è davvero interessante, visto il contesto socio-politico, simile ad altre storie raccontate nei miei due libri. La mia prossima avventura letteraria riguarderà però uno stato europeo, una cenerentola fino agli anni ’70, che a partire dagli anni ‘80 ha cambiato marcia: la Danimarca. Nel mio prossimo libro racconterò l’ascesa della Danish Dynamite, fino al tetto d’Europa nel 1992. Dovrebbe uscire a metà Novembre, il titolo: ‘C’è del calcio in Danimarca’.
Rispondi